Sono lontani i tempi d’oro di Navratilova, Graf, Williams. Le richieste di riforme e parità di montepremi si scontrano con problemi organizzativi e scarso interesse del pubblico

Il tennis femminile è in rivolta. I tanti problemi della sciagurata edizione di Cancun delle Wta Finals – una sede inadeguata, rimediata all’ultimo, con problemi sia tecnici sia climatici sia organizzativi che hanno fatto infuriare quasi tutte le ‘maestre’, soprattutto Aryna Sabalenka – sono la ciliegina nera su una torta di insoddisfazione che continua ad ingrandirsi. Orari, calendario, programmazione, condivisione delle scelte, le questioni in ballo sono tante. «Non ci informano», ha detto ad esempio al New York Times Paula Badosa, che fa parte del consiglio direttivo della PTPA, il sindacato parallelo creato da Novak Djokovic. «Dicono che questo è ciò che si ottiene e che bisogna giocare».

E’ un problema serio, non solo del tennis femminile, perché ‘l’altrà metà’ del circuito per decenni, per un secolo se vogliamo, da Lottie Dod a Suzanne Lenglen, ad Althea Gibson, da Helen Wills alle sorelle Williams, da Billie Jean King a Chris Evert e Martina Navratilova, da Steffi Graf e Monica Seles a Justine Henin e Kim Cljisters è sempre stata una componente importante, a tratti quasi dominante del nostro sport, uno dei più bilanciati fra lato maschile e femminile. Da tempo, purtroppo, non è più così. Di sicuro la colpa è di una gestione discutibile, ondivaga (vedi la questione cinese) ma velleitaria da parte della dirigenza. In questa situazione si inserisce la polemica sulla parità dei montepremi, che può apparire giusta come principio astratto, ma deve poi calarsi in una realtà economica brutale. Il tennis femminile interessa meno, attira meno sponsor, meno pubblico. Le campionesse e i personaggi che riesce a creare, spesso evaporano rapidamente, il ricambio al vertice è talmente rapido che non è in grado di dare vita a rivalità solide, a creare punti di riferimento: Andreescu, Osaka, Krejicikova, Vondrousova, Raducanu, Ostapenko, Kenin… i casi di ‘meteore’ che si consumano in una o poche stagioni si sprecano. E certo non aiuta la causa una finale delle Wta Finals in cui la numero uno del mondo, Iga Swiatek, batte 6-1 6-0 la numero 5, Jessica Pegula.

Un tempo l’opinione pubblica, anche quella non appassionata di sport e di tennis, conosceva i nomi, non solo i cognomi, delle grandi star del tennis, da Martina a Chris, da Steffi a Serena, da Gabriela a Justine. Oggi, forse con l’eccezione di Coco Gauff, non è più così, ed è triste doverlo ammettere. Così forse è facile, e politicamente corretto, invocare la parità di montepremi o il salario garantito – anche se questi diritti restano spesso una chimera in settori ben più cruciali della società, sia nel pubblico sia nel privato. Salvo poi considerare uno spostamento delle Wta Finals in Arabia Saudita, dove i diritti delle donne sono quasi sempre drammaticamente ignorati. Il tennis femminile non è solo in rivolta, ma in crisi, e le ‘fughe’ di Garbine Muguruza e Ashleigh Barty ne sono una ulteriore conferma. Ma forse prima di ‘pretendere’ trattamenti migliori è tutto il movimento femminile che dovrebbe interrogarsi sui propri errori e sul perché una storia esaltante, di progresso, bel gioco e fascino per l’audience, si sia trasformata in troppi casi in una lamentosa marginalità.