Sospeso più volte per i suoi comportamenti discutibili fuori e dentro il campo, dopo l’anno di squalifica per cocaina nel 2017 sembrava perso per il grande tennis. Invece senza chieder aiuto a nessuno, e senza cercare scuse, ma con l’amore di Aleah, è tornato ad essere un protagonista del circuito e a Monte Carlo ha sorpreso Djokovic
Lo squash come primo sport
Dan Evans non è uno stinco di santo – «ogni santo ha un passato, ogni peccatore un futuro», recita la frase che si è fatto tatuare sul braccio – ma neanche uno che cerca scuse. Quando nel 2017 lo trovarono positivo alla cocaina, il bad boy del tennis inglese alzò la mano, chinò la testa. «Okay, ho sbagliato, è colpa mia». Non fece appello, non chiese sconti di pena. Un anno fuori dal tennis, a Cheltenham, fra le casette gialle e le chiesette medievali dei Cotswolds, una novantina di chilometri a nord di Londra. Un po’ di golf, sport in cui se la cava benissimo, i pomeriggi davanti alla televisione – ma non a guardare il tennis, e nemmeno a leggere i risultati sul giornale o su internet, «perché mi faceva solo male il pensiero». La sensazione di aver buttato nella spazzatura un dono, se non altro una categoria. Di essersi giocato tutto per qualche sniffata ad un party, non certo per migliorare il rendimento in campo.
«E’ stato un periodo veramente duro della mia», ha ammesso Dan parlando con Chris Clarey del New York Times. «Ma c’era tanta altra gente intorno a me che non la stavano vivendo bene, sarebbe stato da egoista pensare che il mio comportamento non riguardava chi mi stava vicino. E quel sentimento di rabbia e dolore per quello che avevo fatto loro non è una cosa che ti lasci alle spalle felicemente».
La federtennis inglese per 10 mesi gli ha impedito persino di allenarsi in un circolo affiliato Quando era giovane avevano provato, ad avvertirlo, ora basta.
In realtà il primo sport di Dan, tipico figlio della working class britannica – nato a Birmingham, grande tifoso dell’Aston Villa, papà elettricista, mamma infermiera – è stato lo squash. Il padre glielo fece scoprire a sette anni, il tennis è venuto dopo. Ai tecnici federali comunque non era servito molto tempo per capire che quel ragazzino piccolo ma svelto, indisciplinato ma coordinatissimo, aveva qualche numero. In cerca di migliori opportunità di allenamento gli Evans si erano spostati prima ad Edgbaston, poi a Longborough, dove ha sede uno dei centri della Lta. «A 13, 14 anni non ero il migliore, anzi, a dire il vero ero il peggiore», spiega. «Ero più piccolo degli altri, in ritardo sullo sviluppo. Ma ho sempre creduto nelle mie qualità. E alla fine lo sono diventato, il migliore».
Le notti brave durante Wimbledon
Nel 2004 vince il World Junior Tennis con la Gran Bretagna, due anni dopo è in cima alle classifiche europee under 16, ma la LTA non lo iscrive al torneo under 18 di Wimbledon, «perché mi comportavo veramente da stupido in campo». Continua a migliore, ottiene qualche risultatino, ma nel 2008 ci ricasca: un fotografo lo becca mentre, durante Wimbledon, fa le ore piccole in un nightclub insieme con il suo compagno di doppio Daniel Smethurts e di nuovo la federazione lo mette in castigo, togliendogli wild card, coach e campi di allenamento. E quando nel 2010 la LTA decide di tagliare i fondi per i programmi giovanili, ovviamente Evans fa parte dei reprobi.
Da solo non può permettersi un coach a tempo pieno, e nemmeno di viaggiare all’estero, perché la sua famiglia non ha le risorse per mettere insieme le 30 mila o più sterline all’anno che servono per garantirgli un futuro, e in federazione – my God… – non ne vogliono più sapere. Il caso ci mette mano una prima volta nel 2013, quando la Gran Bretagna deve giocare contro la Russia in Davis. Evans non fa parte della squadra, ma all’ultimo gli viene data la chance di sostituire Jamie Baker, ragazzo educato, per carità, ma non propriamente un combattente. Evans lotta come un dannato nel primo singolare contro Tursunov, perde in cinque ma si rifà la domenica, quando batte Donskoy nel match decisivo. From zero to Hero, come dicono i suoi connazionali. La Lta si tappa il naso e decide di dargli un’altra chance, sotto forma di coach e contributi, e Dan a fine anno è numero 149 del mondo, il numero due della Gran Bretagna. E aiuta la squadra a tornare nel gruppo mondiale di Davis. Ma la musica è sempre la stessa: grande tennis, poca disciplina.
«Ha le qualità per arrivare fra i primi 50 del mondo – dice il suo nuovo coach Julien Hoferlin – Ma non fa nessun sacrificio per riuscirci. Non capisce che deve mettere il tennis al primo posto. Per lui è solo un passatempo». Nel 2015 comunque vince la Davis a fianco dei Murray Brothers, e riprende a macinare qualche risultato; anzi, qualche ottimo risultato. Nel 2017 arriva alla sua prima finale Atp a Sydney, batte Cilic agli Australian Open e Shapovalov in Coppa Davis.
Poi arriva la doccia fredda. In aprile a Barcellona è positivo alla coca. L’ha lasciata nel borsone, sostiene, e così ha finito per contaminare un medicinale – consentito – che sta prendendo in quel periodo. «Recreational drug», si dice, niente di evidentemente scorretto, almeno dal punto di vista sportivo. Ma non basta. Bye bye, Dan, hai avuto la tua, occasione nella vita, e l’hai sprecata. O forse no.
Il bad boy ha messo la testa a posto?
Quando torna alle gare, nessuno si aspetta più molto da lui. Un sentimento ricambiato. «Dan non è uno che si aspetta niente da nessuno. Non si aspetta simpatia, sa che cosa ha fatto a se stesso» dice David Felgate, l’ex coach di Tim Henman. «Ma questo gli dà una prospettiva diversa, che potrebbe allungargli la carriera. Quando perdi un anno ti rendi conto di cosa significa, e hai voglia di recuperare. Vuoi durare di più, perché sai che cos’è la vita senza tennis».
Più o meno è quello che pensa il diretto interessato. «Okay, quella parte della nella mia vita è finito. Tutti mi hanno perdonato non appena ho alzato le mani e accettato la sospensione. Ma non è facile venire a patti con te stesso, giorno dopo giorno, quando realizzi che eri il numero 41 al mondo e hai buttato via tutto. Dire che sono cresciuto suonerebbe come una giustificazione. Non c’è nulla di filosofico, a ripensarci. È stata la cosa peggiore che potessi fare. Ora, sono solo tornato e cerco di vincere qualche partita».
Dan, che oggi è risalito al numero 33 Atp ma che a metà 2018 era finito addirittura fuori dal ranking, non aveva sponsor per l’abbigliamento, dopo che la Nike lo aveva mollato giocava con una maglietta da 20 dollari raccattata al supermarket. Nel 2019 è arrivata Yoxoi, poi la Luke, una ditta inglese, a metterlo sotto contratto. E con il diritto in corsa, i malefici back di rovescio, l’agilità da folletto, il timing perfetto nello scendere a rete e le sue volée vecchio stile, a Monte Carlo Dan è riuscito a dimostrare di avere ancora qualche cosa da dire, a 30 anni, anche contro il numero 1 del mondo. Che certo non era in forma, e ha giocato una delle sue «peggiori partite di sempre», ma non ha negato i meriti dell’avversario. C’era parecchio vento ieri al Country Club, e Dan, per una volta ha approfittato di un aiuto che non aveva richiesto. «Io non stavo bene ha detto il Djoker – ma non voglio togliere nulla a Dan: mi ha fatto muovere, e ha distrutto il mio gioco». Evans, da parte sua, ha rivelato un retroscena: «Djokovic mi ha fatto aspettare negli spogliatoi, così quando sono entrato in campo avevo una motivazione in più per batterlo». Il lupo perde il pelo….
La terra non è certo la superficie migliore di Evans, che ci ha vinto davvero poco sopra e due settimane fa a Cagliari si è arreso ai 19 anni di Lorenzo Musetti. «Ma con il fresco la palla stava bassa, poi sul rosso adesso ho imparato a muovermi bene, scivolo meglio. Ho piazzato qualche buon diritto, e l’ho messo sotto pressione». Il resto lo ha fatto l’esperienza, mentre la sua fidanzata, Aleah, in tribuna se lo mangiava con gli occhi. Non è mai stato un tipo facile, «Evo», magari neanche simpatico, come potrebbe testimoniare Musetti, che ci ha litigato a Cagliari. Ma un brindisi questa volta se lo è meritato. Una pinta alla tua, Daniel.