L’incoraggiamento rogeriano diventa, nelle parole del nostro biblista-tennista, un sostegno quotidiano per superare questi giorni difficili

Ogni promessa è debito. E qualcuno, alla lettura del mio precedente “Atto di Federer”, me lo ha pure chiesto: cos’è la fenomenologia del “Chum jetze!” rogeriano? E soprattutto: cosa significa “Chum jetze!”?

Un passo indietro. Sabato 18 novembre 2017, primo pomeriggio, Londra, O2 Arena, semifinale delle ATP Finals tra il Re e la stellina bionda Goffin. Io c’ero. Roger, tranquillamente avanti di un set e un break, sperpera il vantaggio con stile, come solo i grandissimi, perdendo un’occasione unica. Per dargli forza, all’inizio del terzo set, quando le cose si mettono male, faccio partire come un invasato il grido di battaglia, che in un amen si diffonde in tutta l’Arena: “Let’s go, Roger, let’s go!”, con battito di mani ritmato. Lo avevo sentito in TV, ma non credevo nell’immediato effetto domino, e soprattutto non pensavo di farlo partire io: e invece…

Elementare la traduzione di questo motivetto dalle movenze ipnotiche, mantra solo per sua Immensità: “Forza, Roger, forza!”. Ma il filologo che mi abita puntualizza, a distanza di anni: alla lettera significa “Vai, vai!”. Se ci si pensa – e non tacciatemi di blasfemia – è lo stesso verbo che risuona davanti al sepolcro vuoto nell’alba di Pasqua, rivolto alle donne: “Andate!”. Spesso ci fermiamo, in una stasi paludosa dalle tinte depressive, e allora abbiamo bisogno di qualcuno che ci metta in movimento, di una voce esterna che ci faccia risorgere alla vita. Chissà che effetto deve fare sentirsi rivolgere questo invito da 17.000 persone, magari un giorno lo chiederò a Roger. Certo è che ne abbiamo sempre tanto bisogno, a volte anche sussurrato da una voce sola che ci dica: “Forza e coraggio!”, non con movenze pie ma con sguardo sicuro e amante. E magari con un abbraccio, mannaggia!

E il “Chum jetze!”, mi direte? Fratello del “Let’s go!”. È più conosciuto nella lingua ormai onnipervasiva: “Come on!”, “Dai!”. Di più, sono complementari. Alla lettera qui si tratta infatti di un “Vieni, su!”. Il verbo della sequela cristiana, ma qui ammetto che l’eresia è alle porte. Vi richiedo un ultimo sforzo. Nella lingua svizzero-tedesca del nostro eroe la sfumatura è: “Vieni ora!”. Detto all’avversario, in quella simbolica battaglia che è ogni partita di tennis, dopo un punto importante equivale a un “Fatti sotto!”. E fallo adesso, subito. Ma quel che più conta, è un auto-incoraggiamento in un soliloquio che non dimentica l’altro, anzi. Eccoci arrivati: a volte abbiamo bisogno di incoraggiarci anche da soli. Ciascuno può rivolgersi a “sé come un altro” (Paul Ricoeur). Scendo dalle vette filosofiche e vi faccio ridere (o preoccupare): in casa mi incito così, mentre lavoro. Non solo: ogni tanto per strada, immerso nei miei pensieri, lo grido, suscitando sguardi perplessi nei passanti e stizza in chi è con me. Vi assicuro che anche sotto la mascherina si sente e crea scompiglio. Ma ben venga, dobbiamo ridircelo più spesso!

Fidatevi, non sono ragionamenti intellettuali per ingannare l’attesa del ritorno in campo di Roger, sperando non sia lontano. Senza dimenticare il momento di grazia attuale del tennis italiano, “ormai un condominio di lusso, affollato di storie”, come ha scritto altrove il Direttore. Ma anche ben oltre il tennis, qui c’è tutta la nostra vita: andare e venire, “forza!” e “dai!”. È quello che ci serve per restare in piedi, per non stancarci di colpire ancora e ancora quella pallina che spesso arriva dove non ce l’aspettiamo. O pensate solo all’andare e venire di un tennista tra la rete e la riga di fondo campo. Ancora, ancora, ancora. Come ogni nostra giornata.

E mi sovvien un testo esistenziale, Open di Agassi, che parte dal tennis ma va ben più lontano. Scrive il Kid di Las Vegas, avversario di Roger quando Sinner e Musetti ancora non erano nati: “Ormai vivo per quei dieci minuti fondamentali prima di addormentarmi. In migliaia mi hanno applaudito, in migliaia mi hanno fischiato, ma non c’è niente di peggio dei fischi che senti dentro la tua testa in quei dieci minuti prima di addormentarti”. Ecco, prima di dormire tacitiamo i pensieri tristi più fastidiosi dei fischi e non dimentichiamo di ripeterci: “Chum jetze!”. Se volete, quando sarà possibile, potremo allenarci gridandolo in quelle poche arene in cui il Re ancora andrà e verrà per darci gioia. Per lui e per noi: “Let’s go!”. Con lui: “Chum jetze!”.