Il noto giornalista di Repubblica ha sostenuto all’interno della rubrica delle lettere del quotidiano romano che Caruso non avrebbe dovuto «fare il tappabuchi» di Djokovic agli Australian Open. Infilando una sconcertante serie di svarioni
Francesco Merlo è un grande giornalista, uno scrittore di buona fama, un opinionista di valore. Ma stavolta, duole scriverlo, ha toppato. E malamente. La sua risposta nella rubrica «posta e risposta» de La Repubblica di ieri – l’oggetto era Salvatore Caruso e il suo ruolo di lucky loser sostituto di Novak Djokovic agli Australian Open – intitolata «Caruso non doveva giocare» è sinceramente sconcertante. Questo il passo saliente: «Caruso sapeva che sarebbe stato malamente eliminato. Eppure, con consapevole amarezza più che ironia, ‘sono il lucky loser più famoso della storia’ si era limitato a dire questo simpatico tennista della bella Avola. Fossi stato lui, avrei rifiutato di giocare: non ci vuole infatti il senno di poi per capire che avrebbe dovuto sottrarsi al ruolo di tappabuchi. E il tennis italiano avrebbe dovuto proteggerlo impedendo a Caruso di comportarsi da ‘caruso’ (in siciliano ‘ragazzo’)” e poi ancora “nel salvataggio di Sasà Caruso, nel suo recupero, non c’è nulla di valoroso. È stato un rovescio che non ha umiliato l’escluso (Djokovic), ha umiliato l’incluso. Brutta storia».
Una sequela di sciocchezze del genere davvero amareggia, ancora di più perché apparsa sulle colonne di uno dei grandi quotidiani italiani. Merlo avrebbe facilmente potuto chiedere consiglio all’ottimo collega Paolo Rossi per farsi spiegare che 1) il lucky loser non è un tappabuchi, ma un ruolo definito del tennis, previsto in ogni torneo da regolamento 2) che se non avesse giocato Caruso ci sarebbe stato un altro lucky loser al suo posto 3) che Caruso non si è definito «il più fortunato», ma il «più famoso», e lo ha fatto, bravo lui, con ironia e autoironia 4) che la fortuna, i «perdenti fortunati», se la meritano per diritto di classifica, sudando nei tornei 5) che Caruso non andava affatto in campo battuto, che di giocatori più forti di Kecmanovic ne ha sconfitti parecchi e che contro il serbo a Melbourne giusto l’anno scorso ha perso solo in tre battagliatissimi set.
Non si capisce poi perchè mai «il tennis italiano» (nella persona di chi?) avrebbe dovuto proteggerlo impedendogli ( e qui si stenta a credere ciò che si legge…) di comportarsi da «caruso». E soprattutto proteggerlo da cosa: dal diritto sacrosanto a incassare il premio di primo turno che per un tennista che si paga trasferte e coach e manna dal cielo? Dalle critiche che nessuno al mondo, tranne l’opinionista di Repubblica, si è mai sognato di rivolgergli? Neppure si comprende perché Caruso dovrebbe sentirsi «umiliato» da una sconfitta: che concetto ha dello sport, il collega Merlo? Sfugge anche in nome di che cosa, avrebbe dovuto ritirarsi: della solidarietà per Djokovic l’escluso o della protesta contro «l’arrogante capopolo» serbo? Certo, lo sport è fenomeno ancillare rispetto alla politica o alle grandi questioni sociali di cui si occupa di solito l’ottimo collega, per tanti anni inviato a Parigi (dove però immaginaniamo non abbia mai assistito al Roland Garros); ma vederlo maltrattato così, con approssimazione e faciloneria, quando per un qualche motivo si impone all’attenzione mondiale tout court, fa tristezza. Peccato, un’occasione persa, e una piccola macchia per il grande giornalista e autore di un volume dal titolo che oggi appare ironicamente profetico: «Sillabario dei malintesi».