Il ricordo di uno dei tecnici che più hanno segnato gli ultimi 40 anni del tennis mondiale, anello di congiunzione fra l’era di Hopman e quella di Becker e Ivanisevic. E’ stato lo scopritore di Cilic e il mentore della rinascita giapponese, ma soprattutto una persona di grande umanità, saggezza e passione per il nostro sport
Da Hopman a Becker
Se ne è andata una brava persona, un grande tecnico, un appassionato di tennis come pochi. E anche un amico. Bob Brett per anni ha tenuto su Matchpoint, la rivista che aveva raccolto l’eredità di Matchball, una rubrica – in campo con Bob – che scrivevamo insieme. Lui a dettarmi i temi, le riflessioni, i mille spunti sul tennis che gli suggerivano l’esperienza infinita e la grande passione per il nostro sport, io a trascriverle in italiano, a volte interrogandolo per spremere ancora una goccia in più della sua sapienza tennistica, al telefono o nella players lounge di qualche torneo. E ne uscivano rubriche sempre interessanti, mai banali, piene di idee e di una conoscenza reale del tennis, perché costruita – come diceva il nome della rubrica – proprio ‘sul campo’. Nei tanti anni passati vicino a Sanremo, nella sua Academy, aveva imparato anche l’italiano, ma preferiva parlare sempre in inglese perché il suo pensiero risultasse più chiaro, «e poi», diceva con quel suo sorriso schivo ma luminoso, «in italiano scrivi benissimo tu».
La notizia della sua scomparsa arriva a intorbidire ancora di più il ricordo di un anno tragico, quello appena passato, che ci ha consegnato tanti lutti, tanto dolore. Nell’ambiente sapevano tutti della lotta di Bob contro una malattia che l’aveva aggredito, negli ultimi mesi si era capito che le sue condizioni erano sempre più gravi, ma non per questo la notizia fa meno male.
Bob è stato l’anello di congiunzione fra il grande tennis australiano degli anni 50 e 60 e il Tour moderno. Dal suo maestro Harry Hopman – che citava sempre – ha imparato tanto, ma la sua grande capacità è stata quella di adattare la saggezza di ‘Hop’ ai nostri tempi. Come tanti della sua generazione aveva iniziato facendo il raccattapalle per campioni del calibro di Arthur Ashe, Cliff Richey, Clark Graebner e Jim McManus, transitando poi per una carriera da giocatore abbastanza breve prima di lanciarsi nel tour come allenatore e coach, a fianco di Hopman, iniziando a lavorare a fianco di Vitas Gerulaitis, Mary Carillo, Peter Fleming e altri.
Il coach che sussurrava ai campioni
La sua prima grande esperienza fu quella con il tour itinerante sponsorizzato dalla Rossignol a fine anni 70 che comprendeva Andres Gomez, Johan Kriek – due futuri vincitori di Slam – e poi Tim Mayotte, Jose Luis Clerc, Guy Forget, Henrik Sundstrom, e più tardi anche Mats Wilander. La grande notorietà l’ha raggiunta da coach di Boris Becker, che ha allenato dall’87 in avanti, nell’era d’oro di Bum Bum, insegnandogli il valore della disciplina, del lavoro, vincendo al suo fianco ben 18 titoli, fra cui uno dei tre Wimbledon di Boris, e l’unico Us Open.
Poi ci sono stati gli anni, altrettanto esaltanti, a fianco di Goran Ivanisevic, Andrei Medvedev, Nicolas Kiefer, Mario Ancic e Marin Cilic, il ragazzino di cui aveva iniziato a parlarmi fin da quando Marin aveva 10 anni, e che ha accompagnato come un secondo padre ai primi grandi successi. Fu grazie a Bob che riuscii ad intervistare Marin in esclusiva per La Stampa appena dopo la sua prima semifinale Slam agli Australian Open. Con la Croazia Brett ha sempre avuto un filo diretto, ma essendo un uomo curioso e interessato al mondo è stato anche uno dei personaggi chiave nello sviluppo moderno del tennis in Giappone (è stato supervisore della squadra di Coppa Davis fra il 2003 e 2006, ma anche in tempi recenti continuava a tenere laggiù camp e stage per i giovani). Guardava con grande interesse alla Cina, ma ha saputo aiutare con generosità anche Patrick Mouratoglou a diventare il coach famoso e rispettato che è oggi. «Come coach ho beneficiato del mio rapporto con Hopman, ma non l’ho mai copiato», sosteneva. «Un giocatore deve essere mentalmente forte, per dare il meglio sotto pressione. Lo puoi guidare allora, suggerirgli degli esempi e parlargli della storia del gioco, ma alla fine si tratta di tirargli fuori le qualità che ha già dentro di sé. E avere un occhio speciale per i dettagli». Una concezione ‘maieutica’ del tennis, che puntava a valorizzare ogni atleta per le sue caratteristiche più che a imporre dall’alto un metodo. Uno dei maestri che citava sempre, oltre ad Hopman, era Stan Nicholls, il preparatore di Margaret Court e di Frank Sedgman, uno dei primi a intuire l’importanza di un allenamento mirato e costante, scientifico diremmo oggi, anche nel tennis.
A piangerlo sono tanti, ma forse farei meglio a dire tutti i protagonisti del Tour, da Becker a Ivanisevic, da Martina Navratilova a Nicolas Kiefer, da Patrick Mouratoglou, a Riccardo Piatti, Judith Murray, a Craig Tiley, mille altri, in Australia come in Italia e in tutto il mondo, per arrivare ad un fuoriclasse del decathlon come Daley Thompson. Mancherà a tutti noi, Bob. Possiamo consolarci in parte ripensando all’esempio e alla saggezza che ci ha lasciato in eredità. E a quel suo sorriso, vivace e ironico, intelligente e divertito, che non dimenticherò mai. Ciao, Bob, e grazie di tutto.