Quella bizza comportamentale l’aveva fatto finire in programma di sensibilizzazione sull’alcolismo, ma oggi Tommy Paul è un ragazzo diverso. Da quando ha conosciuto coach Brad Stine lavora come pochi, ha cambiato il suo modo di intendere il tennis e ora sfida Djokovic in semifinale all’Australian Open. Con un posto nei top-20 garantito

Un passato turbolento, un presente tutto da vivere

Tommy Paul è un tizio dalle idee chiare. Quando si è presentato in conferenza stampa dopo il derby con Ben Shelton che ha riportato uno statunitense (lui) in semifinale all’Australian Open a 14 anni dall’ultima di Andy Roddick, la sfida fra Djokovic e Rublev era al primo set. “Forse avrei più chance contro Rublev – ha detto –, ma è Djokovic che voglio sfidare”. Una dichiarazione di guerra che al serbo fa il solletico ma dice molto sul carattere dell’ultimo statunitense arrivato a bussare alla porta dei big. È già il terzo negli ultimi mesi: prima Tiafoe è giunto a un set dalla finale dello Us Open, poi Fritz è entrato fra i primi 10 al mondo e ora tocca a lui, classe ’97 da Voorhees (New Jersey), fra i primi 100 dal 2019 ma mai così in alto. Negli Slam aveva perso 10 volte su 13 fra primo e secondo turno, con un ottavo lo scorso anno a Wimbledon come miglior risultato, ma a Melbourne si è già migliorato due volte, aiutato da un tabellone che non gli ha messo di fronte alcun top-20. È una fortuna ma mica una colpa: poteva limitarsi a battere chi si è trovato di fronte e l’ha fatto bene, raccogliendo in un colpo solo i frutti del lavoro tecnico, atletico e mentale con coach Brad Stine, figura dagli enormi meriti nel percorso che ha garantito a Paul un posto fra i primi 20 del ranking. Prima di conoscerlo si considerava un contrattaccante, dal rovescio solido e dal dritto così così. Oggi, invece, il dritto lo usa a comandare gli scambi, è diventato un signor atleta e fa parlare di sé solo per i risultati, e non più per qualche bizza che negli anni non è andata giù ai dirigenti della USTA.

La più grave risale al 2017, quando Martin Blackman, direttore del Player Development della Federazione americana, lo obbligò addirittura a seguire un programma di sensibilizzazione sull’alcolismo, dopo che durante lo Us Open si presentò completamente ubriaco per un doppio contro Bolelli/Fognini, arrivando in campo appena in tempo dopo aver mancato a ripetizione la sveglia. Era messo talmente male da lisciare la palla, così finì 6-0 6-0 in 35 minuti per gli azzurri, per la gioia (si fa per dire) del suo compagno Steve Johnson. La storia? La sera prima Tommy era semplicemente uscito per qualche birra in compagnia, per dimenticare una sconfitta in cinque set contro Taro Daniel, ma si era lasciato prendere la mano rientrando in piena notte con un tasso alcolico elevato. Uno sgarro capitato a tutti almeno una volta nella vita (lo racconterà nella seconda stagione di Break Point, la serie Netflix sul tennis), ma che fece infuriare i dirigenti federali e gli fu sufficiente per meritarsi l’etichetta di ribelle. Tanto che, quando due anni dopo mancò un appuntamento di prima mattina con un preparatore atletico della USTA, pensarono subito a una nuova bravata (mentre in realtà stava semplicemente dormendo) e non gliela fecero passare liscia, tagliandogli coach, finanziamenti e wild card per lo Us Open. Col senno di poi, è stata la volta della sua carriera: proprio in quel periodo ha conosciuto coach Stine, ex allenatore di Jim Courier e Sebastien Grosjean, ha capito che poteva essere l’uomo giusto per il suo futuro e non se n’è più privato.

L’ultimo arrivato di una generazione attesa da tempo

All’inizio, anche Stine ha avuto le sue belle difficoltà a farlo rigare dritto, perché Paul è pur sempre quel ragazzo che da juniores vinceva un Roland Garros e arrivava in finale allo Us Open, in quel magico 2015 nel quale tre Slam juniores su quattro finirono negli States (Opelka a Wimbledon e Fritz a New York gli altri due). Era sempre stato abituato a eccellere senza sforzarsi troppo, motivo per il quale nel passaggio fra i grandi ha sofferto molto di più rispetto ai suoi compagni di sempre, rimanendo l’ultimo del gruppetto. Ma da quando è entrato fra i primi 100 ha iniziato a investire sul serio su se stesso e la crescita è stata costante: un anno dopo era intorno al numero 50, poi è entrato nei primi 40 (anche grazie al primo e unico titolo ATP, nel 2021 a Stoccolma), quindi nei 30 e da lunedì almeno nei 20. O nei 15 se dovesse battere Djokovic, addirittura nei 10 se dovesse prendersi il titolo. Quel che è già certo è che garantirà un terzo top-20 agli Stati Uniti: ci è voluto più tempo del previsto, ma finalmente la generazione attesa da quel già citato 2015 trionfale negli Slam juniores è arrivata. “Ognuno di noi – ha detto Paul – ha avuto un percorso differente. Fritz ha fatto molto in fretta, io molto meno. Ma negli ultimi quattro anni della mia carriera ho sempre fatto dei piccoli passi avanti. Mi auguro che questa possa essere la stagione che mi porta nei primi 10: è lì che voglio arrivare”.

Come detto, per riuscirci nel giro di tre giorni dovrà battere prima Djokovic e poi probabilmente Tsitsipas, un po’ troppo anche per lui che ha sempre dimostrato di esaltarsi contro i più forti, tanto da vantare un bilancio contro i top-10 di 6 vittorie in 18 sfide, niente male per uno che ha assaggiato appena la top-30. Ma se dovesse continuare la sua crescita non è detto che non possa riuscirci più avanti, sulla scia di un periodo finalmente positivo per il tennis a stelle e strisce. “La situazione – ha detto ancora – fa bene a tutti. Vedere ragazzi coi quali sei cresciuto, condividendo per una vita lo stesso livello di gioco e gli stessi tornei, fare grandi cose è una motivazione super. Ho visto Fritz vincere un Masters 1000 e sono stato felicissimo per lui, ma mi ha fatto pensare di poterci riuscire anche io. Poi ho visto Tiafoe arrivare a un set dalla finale dello Us Open, e ho pensato lo stesso. Siamo un bel gruppo e ci spingiamo a vicenda: parliamo, ci confrontiamo, ci sosteniamo. Tutti vogliamo essere i migliori, c’è grande competizione”. Ma prima di tutto viene l’amicizia. “Opelka – ha continuato – questa settimana è stato come un coach a distanza, Fritz continua a inviarmi dei meme stupidissimi su Instagram, Tiafoe mi ha mandato dei messaggi. Sento il supporto da parte di tutti”. Difficilmente gli basterà per battere Djokovic, ma per il tennis degli States è un segnale importante dopo anni di carestia. Sono tanti, sono forti, sono affiatati e possono fare grandi cose. In attesa di una nuova star.