Primo qualificato in semifinale in uno Slam dal 2000, la storia di Karatsev come tennista è stata finora tutto fuorché noiosa. Dagli inizi in Ossezia ai vagabondaggi in Israele, Spagna, Germania e Bielorussia. Il suo segreto: “Non penso quando gioco”

Qualificato in semi in uno Slam: solo altri 4 precedenti

L’Armata Russa vuole conquistare Melbourne Park, e pazienza se in prima linea e in prima pagina per ora c’è finito il suo generale meno conosciuto, anzi, un caporale che la promozione se l’è guadagnata sul campo, nella prima settimana del torneo.

Nei quarti degli Australian Open di russi ne sono arrivati ben tre, senza contare le grossi dosi di dna russo che circolano nei corpaccioni di Sascha Zverev (100 per cento) e Stefanos Tsitsipas (50 per cento). I due più forti, gli amici di infanzia Andrey Rublev e Daniil Medvedev, si incontrano stanotte. L’altro, quello che nessuno si aspettava, Aslan Karatsev, in semifinale c’è già.

Dopo Schwartzman e Auger Aliassime ha eliminato – complice uno dei tanti infortuni di questo Australian Open – anche Grigor Dimitrov, e da qualificato, numero 114 del mondo, è sbarcato fra i primi quattro di uno Slam. Come si dice con enfasi da cinegiornale: un risultato storico.

Prima di lui ci erano riusciti solo altri quattro: John McEnroe a Wimbledon 1977, Bob Giltinian all’Australian Open 1977, Filip Dewulf al Roland Garros 1997 e Vladimir Voltchkov a Wimbledon nel 2000. Aslan peraltro è il primo tennista nell’era Open capace di arrivare nella seconda settimana al debutto nello Slam (finora era sempre stato respinto nelle qualificazioni, l’ultima volta l’anno scorso a Parigi contro Korda junior).

Nessuno dai tempi di Patrick McEnroe nel 1991 era arrivato in semifinale in Australia con un ranking così basso, 114, lo stesso di Aslan. Il tutto a 27 anni, avendo vinto in precedenza un totalino sconfortante di tre match a livello Atp (a Mosca nel 2015 contro Youzhny, a San Pietroburgo e Sofia nel 2020 contro Sandgren eTaro Daniels) e con quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così che hanno quelli che non hanno mai visto il tennis da così in alto. E neppure, tutti insieme almeno, i 545 mila euro di montepremi (per ora), visto che in tutta la carriera se ne era messi in tasca complessivamente 535 mila.

Una vita da giramondo

Una vita da mediano, un tennis tutto d’attacco, «perchè scambiare da fondo e a correre tanto non mi piace, quindi cerco di servire forte ed essere aggressivo». Lustri spesi a vagabondare fra Asia ed Europa, a navigare nei fondali bassi di tornei Future e Challenger, senza peraltro mai portarne a casa uno, frenato anche da un infortunio al ginocchio che quattro anni fa lo ha esiliato dal Tour per sei mesi. Insomma, uno che non avrebbe dovuto stare qui, non avrebbe dovuto disturbare i conducenti e che invece si giocherà la semifinale di un major. «Aslan è la nostra arma segreta», sogghigna il dostevskiano Medvedev, con la sua faccia da tenentino indisponente, ed è ovvio che Aslan spera di papparselo eventualmente in finale, una volta che avrà regolato i conti con Rublev e uno fra Nadal e Tsitsipas in semifinale.

Per qualcun altro invece Karatsev è il Limonov del tennis, un imbucato della storia, che prende quello che arriva con la leggerezza e il cinismo di chi non ha nulla da perdere. Proprio come il protagonista (reale) del bestseller di Emmanuelle Carriere. «Vincere il torneo? Cerco di non pensarci – ridacchia – gioco match dopo match, uno alla volta, vediamo cosa succede».

Karatsev è nato a Vladikavkaz, che sembra un nome inventato per definire un nonluogo sperso in un lembo dimenticato della cartina, invece è la capitale dell’Ossezia del Nord, o Alania, ai confini fra Russia e Georgia, ai piedi del Caucaso. Neve, monasteri, paesaggi fiabeschi, statue ieratiche di cosacchi, un’aria da romanzo alla Michele Strogoff.

Quando Aslan aveva 13 anni i Karatsev si sono trasferiti in Israele (la mamma di Aslan è ebrea); il suo primo maestro è stato Vladimir Rabinovich, a Tel Aviv, poi però mentre la mamma e la famiglia sono restati in Israele, Aslan con il padre è rientrato in Russia, a Taganrog – altro nome da serie tv con elfi e draghi… – e per lui è iniziato un carosello di allenatori sparsi fra Mosca (l’ex pro Tursunov), Germania («mi allenavo bene, ma non avevo la giusta mentalità»), Spagna e finalmente Bielorussia, a Minsk, dove lo segue da tre anni Yahor Yatsyk.

Sembrava un neutrino tennistico, polvere raccolta dal carro della giovane superpotenza rusky. Invece. Delle ultime 45 partite giocate ne ha perse appena 7, e quando gli hanno chiesto qualche mese fa quale pensava fosse il segreto della rinascita, dopo il lungo stop per l’infortunio, ha spiegato con parole molto zen: «Si può dire che ho smesso di pensare. Ho solo cercato di giocare ogni palla. È questo che mi ha aiutato a vincere». Contro Dimitrov non ha dovuto pensare troppo, visto che il bel Griga, dopo un primo set dominato e il secondo perso in lotta, dal terzo in poi non ha potuto fare granché, bloccato da un dolore alla schiena (2-6 6-4 6-1 6-2). Uno dei tanti, fra veri e immaginari, di questo Injurj open, dove Karatsev finora si è mosso con la grazia e la determinazione degli eroi inattesi.

Quella di Aslan, santo vagabondo del tennis, è una fiaba strana, prima o poi – pensano tutti – arriverà il cavaliere che lo ricaccerà al suo posto. Giovedì – con il pubblico di nuovo ammesso ai campi- , dovrà poi vedersela con il ba-bau numero 1, Novak Djokovic.

Ma per ora lo stregone è Karatsev.