Nel corso della presentazione, su Instagram, della sua fondazione, associazione che ha lo scopo proprio di fornire aiuti ai bambini che soffrono di diabete, Alexander Zverev ha spiegato cosa lo ha spinto a decidere, giunto all’età di 25 anni, di rendere pubblica la sua malattia e di rendersi utile per la collettività

Alexander Zverev ha rivelato che medici curanti e medici specialisti, prima che la sua carriera decollasse, gli avevano detto che non avrebbe potuto continuare a giocare a tennis e che sarebbe stato difficile, per lui, giungere ai massimi livelli. Al tedesco, infatti, è stata diagnosticata una forma di diabete quando aveva appena tre anni e, non a caso, più volte l’abbiamo visto controllare il suo livello di zucchero nel sangue durante le partite. Nonostante sia affetto da questa malattia cronica e debilitante, il 25enne di Amburgo ha dimostrato una grandissima determinazione, qualità necessaria per permettergli di arginare il problema e di diventare numero 2 del mondo, vincendo due titoli alle ATP Finals, cinque trofei Masters 1000 e l’oro olimpico, senza dimenticare la finale raggiunta – e persa solo al tiebreak del quinto set – agli US Open 2020.

Nel corso della presentazione, su Instagram, della Alexander Zverev Foundation, associazione che ha lo scopo proprio di fornire aiuti ai bambini che soffrono di diabete, il semifinalista in carica del Roland Garros ha spiegato cosa lo ha spinto a decidere, giunto all’età di 25 anni, di rendere pubblica la sua malattia e di rendersi utile per la collettività. “Mi era stato detto – ha raccontato Zverev – che non ce l’avrei mai fatta con il diabete. Diversi medici, diversi specialisti mi dissero: ‘Atleti competitivi nonostante il diabete? È impossibile’. E poi, ad un certo punto, ho realizzato che ero diventato numero 2 del mondo, avevo vinto l’oro olimpico, e che era, dunque, arrivato il momento di aiutare gli altri ad arginare questo problema. Posso dar coraggio agli altri, posso essere portatore di un messaggio di speranza. Ho pensato che mi sentivo bene, che avevo 25 anni e che volevo aiutare i bambini con il mio stesso problema, aiutare soprattutto i loro genitori. Ecco perché ho reso pubblica la mia storia”.