Col ritiro di Seppi il tennis italiano perde un gigante, ma anche una persona per bene capace di farsi apprezzare dal mondo per serietà, dedizione e cultura del sacrificio. Ha sempre tenuto i piedi per terra, lavorando per 27 anni con lo stesso allenatore. E lascia senza rimpianti: roba comune a pochi
I numeri di Andreas
17 maggio 2008, Amburgo. Al Rothenbaum Tennis Center è la giornata delle semifinali del Masters Series, ultimo in preparazione al Roland Garros. In corsa sono rimasti in quattro: Roger Federer, numero uno del mondo; Rafael Nadal, numero due; Novak Djokovic, numero tre e… Andreas Seppi. Fra i traguardi snocciolati nel riassumere la carriera di Andreas, questo viene spesso dimenticato eppure è uno dei più significativi, perché è stato il suo migliore di sempre in uno dei nove tornei che stazionano un gradino sotto agli Slam, ma ancora di più per ciò che ha simboleggiato per lui, seduto per un pomeriggio in mezzo alle tre rockstar, ai giganti che hanno segnato un’epoca e vinto come nessuno. Al tempo i Three erano meno Big rispetto a oggi, ma quello rimane uno dei ricordi più dolci che Seppi si porterà in pensione, al termine di un percorso fra i più importanti nella storia del tennis italiano. Lo dicono le statistiche, perché da quando esiste la classifica ATP solamente sette italiani sono riusciti a salire più su del numero 18 di Andreas, ma soprattutto lo dice il cuore, perché con serietà, dedizione e spirito di sacrificio Seppi si è fatto apprezzare davvero da tutti. Anche da chi qualche anno fa non lo capiva e gli dava del crucco, oppure gli preferiva connazionali dal tennis più brillante, dall’atteggiamento più spavaldo o dal dritto più veloce, faticando a riconoscere qualità meno appariscenti ma altrettanto – o forse più – importanti per diventare un grande tennista e una persona per bene. Quando fra una dozzina di giorni al Challenger di Ortisei tornerà negli spogliatoi dopo la sua ultima partita, Andreas potrà salutare consapevole di essere stato entrambe le cose.
È stato un tennista capace di trascorrere 810 settimane nei primi 100, che tradotte fanno 16 anni di fila, oppure di giocare 66 tornei del Grande Slam consecutivi, terzo di tutti i tempi alle spalle dei soli Feliciano Lopez (79) e Fernando Verdasco (67). Ma è stato anche un ragazzo che in un mondo nel quale a montarsi la testa ci vuole un attimo ha sempre saputo rimanere quel bambino di Caldaro nato da una famiglia umile, senza grilli per la testa, con la cultura del lavoro e del rispetto. Anche in un ambiente italiano che spesso non gli ha saputo dare la considerazione che meritava, lui ha sempre risposto alla Seppi, con educazione, poche parole e tanti risultati. Ha vinto tre titoli ATP diventando il primo azzurro a riuscirci su tre superfici diverse, è stato numero uno d’Italia per 215 settimane e ha giocato 130 partite negli Slam, record italiano. Nei Major ha raggiunto sei volte gli ottavi di finale, con l’unica eccezione dello Us Open, e chiuderà la carriera con 386 vittorie nel circuito, sole cinque in meno di Adriano Panatta. Ma ai traguardi figli della longevità, e di una integrità fisica dovuta non al caso ma ad attenzione e allenamento, Seppi ne ha abbinati anche tanti altri merito di grandi giornate: ha battuto Rafa Nadal, nel 2008 a Rotterdam col pubblico dell’Ahoy che gli ha intonato “happy birthday” nel giorno del suo 24esimo compleanno, e poi Roger Federer, nel 2015 al terzo turno dell’Australian Open, ottenendo quella che per cognome dell’avversario e peso del palcoscenico è ai primissimi posti nella lista delle più importanti vittorie azzurre di tutti i tempi.
La serenità di chi sa di aver fatto il massimo
Ripercorrendo qualche sua intervista, si nota che Seppi vedeva l’addio vicino già da un po’, ma nella sua testa l’equazione è sempre stata semplice: fino a quando il ranking è a due cifre, garanzia di un posto nei tornei che contano e di conseguenza anche di introiti importanti, giusto andare avanti. Ora che invece è scivolato fuori dai primi 250 del mondo, dopo un 2022 da poche vittorie e tanti primi turni, ha capito che non ne vale più la pena. “Non c’è nulla da vergognarsi a dire basta”, ha detto nell’intervista a Rai Sϋdtirol con la quale ha annunciato l’imminente addio, come a voler giustificare la mancanza di voglia di ripartire da qualificazioni e Challenger. In realtà, invece, la decisione di smettere ora non è altro che un ulteriore merito, perché non è da tutti nemmeno capire quando è il momento di appendere la racchetta al famoso chiodo. Lui l’ha azzeccato in pieno, prendendo la decisione allo Us Open: ha messo sul piatto i 38 anni, i due figli e un fisico che negli ultimi tempi gli ha dato sempre più noie, e ha capito che non era più il caso di andare avanti. C’è da scommettere che l’abbia fatto con enorme serenità, quella di chi – e non sono tanti – può ritirarsi con la consapevolezza di aver raccolto il cento per cento dalla propria carriera.
Qualche rimpianto ce l’ha anche lui, su tutti il match-point fallito contro Nick Kyrgios per conquistare all’Australian Open 2015 quel maledetto quarto di finale Slam che gli è sempre mancato, oppure qualche occasione lasciata qui e lì, partite che si potevano vincere o le sette finali ATP perse su dieci giocate. Ma il tennis ad Andreas ha comunque restituito tantissimo e anche il vizietto di mancare le occasioni ha contribuito a dare forma al personaggio, più umano rispetto ad altri, più vulnerabile, più vicino ai comuni mortali. Anche se in fondo, nella sua storia sportiva, di normale ci sono solo le origini. Perché il resto è da romanzo, poco reale come le possibilità che andasse a buon fine la famosa idea del pasticcere Alexander Vorhauser, un tempo presidente del Tennis Club Caldaro, che a metà Anni 90 si mise in testa di voler costruire un top-100 partendo dai ragazzini della SAT. Ingaggiò un tecnico vicentino con poca esperienza ma enormi ambizioni, al secolo Massimo Sartori, e come è andata a finire lo sanno tutti.
Andreas e Max sono stati allievo e maestro per la prima volta il 3 luglio del 1995, quando Sartori si è palesato per la prima volta davanti a quel biondino magrissimo che l’italiano lo parlava a malapena, e lo saranno ancora fra una dozzina di giorni a Ortisei, quando Seppi farà il tennista per l’ultima volta. Conoscendoli, non c’è da aspettarsi nulla di particolare: sapranno trattare anche l’ultima partita come una delle quasi 1.300 disputate a livello internazionale dal lontano 1999, da quando a 15 anni Andreas si presentò per la prima volta a giocare le qualificazioni in uno dei vecchi Satelliti. Lo fece proprio nel suo Alto Adige, dove a breve trasformerà il presente in passato, per aprire al futuro. Quale? Una manciata di stagioni fa diceva che difficilmente avrebbe trovato spazio all’insegnamento, invece a fine settembre ha annunciato di essere entrato a far parte di Horizon Tennis Home, il progetto tecnico che oggi coach Sartori dirige nella sua Vicenza. Non si conoscono le modalità dell’impiego di Andreas, ma continuerà a lavorare con Max. Come negli ultimi 27 anni, come sempre. Perché senza Sartori non ci sarebbe stato Seppi, ma senza Seppi non ci sarebbe stato Sartori. L’hanno sempre saputo entrambi, facendone la loro forza.