Dopo la vittoria a Parigi Nadal e Federer hanno inaugurato un nuovo marchio: 20-20. Sono loro che polarizzano le attenzioni dei fan, uno in campo, l’altro in attesa di tornarci
Rafa, scusami
Lo so, non bisognerebbe mai scrivere un articolo parlando in prima persona. A meno che non sei Indro Montanelli o Enzo Biagi, oppure il direttore della testata. O per restare nel nostro campo, l’immenso Gianni Clerici. Non si dovrebbe neanche scrivere un pezzo dicendo di parlare in prima persona. Sbagliato anche questo: stai scrivendo o stai parlando?
Tante cose non si dovrebbero fare, ma questo vuole essere un articolo molto personale, di quelli “scritti ad alta voce”, perciò mi scuserete se vado contro qualche regola.
L’ho fatto subito nel titolo, lo ripeto anche qui: scusami Rafa! Quante volte leggiamo articoli nei quali dal titolo si capisce una cosa e poi nel testo esce fuori tutt’altro? Stavolta no, non deve esserci il minimo dubbio e quindi, repetita iuvant, è meglio ribadire il concetto fino allo sfinimento se necessario.
Mi consegno: ero uno di quelli che mai avrebbe pensato che Rafa avrebbe retto ad altri livelli oltre i 28, massimo 30 anni. Ero quindi stato sbugiardato e ridicolizzato dal fenomeno maiorchino già da un bel pezzo. Con sprezzo del pericolo (e del ridicolo) arrivai una volta a predire a Rafa, Dio mi perdoni, un futuro “alla Wilander”. Vi ricordate come andò la carriera di Mats? Grandi successi dall’età di 18 anni (addirittura più precoce di Rafa), una rincorsa spasmodica al numero uno di Ivan Lendl e poi, una volta raggiunto l’ambito traguardo, un declino lento e inesorabile, scandito da problemi non solo fisici.
Eravamo nel 2009 quando scrissi quell’idiozia e la carriera di Rafa mi sembrava prendere la stessa china. Subito quattro Roland Garros di fila dai 19 ai 22 anni, seguiti dalle due leggendarie vittorie su Federer a Wimbledon 2008 e all’Australian Open 2009. Il tutto condito dalla prima posizione del ranking raggiunta nell’estate del 2008.
Poi però, non so quanto all’improvviso, arrivarono nel corso del 2009 i primi guai fisici. Prima l’incredibile sconfitta con Soderling a Parigi, seguita dal ritiro a Wimbledon e da altri problemi vari. Finché a fine anno non me lo trovai di fronte a Londra, nella sala stampa della O2 Arena in occasione delle ATP Finals, ed ebbi netta l’impressione di avere davanti a me la controfigura di Nadal. E fu proprio in quell’occasione, dopo tre sconfitte in tre match nel Round Robin che scrissi, ahimè, quella sciocchezza.
Rafa, nella sua magnanimità, mi concesse immediatamente una prima occasione per redimermi. Accadde pochi mesi dopo, subito nel 2010, quando dopo un infortunio nei quarti dell’Australian Open che lo costrinse ad arrendersi a Ferrer, inanellò una serie di tre Slam consecutivi che lo riportò nell’unico posto che sembrava adatto al suo status di allora: il numero uno del ranking. Ma io niente, ancora non volevo capire.
Il 2011 vide poi la definitiva esplosione di Djokovic e nel 2012, alla vigilia delle Olimpiadi di Londra, spuntò fuori la sindrome di Hoffa. Ve l’eravate scordata eh? Invece ci fu anche quella. Ne nacquero dibattiti, analisi, diagnosi a distanza, persino sospetti. Ed io, ancora una volta, ero tra quelli che vedevano la fine vicina. E ancora una volta sono costretto a chiedere scusa.
Arriviamo quindi al 2013, la stagione del post infortunio. I nodi, pensavo, sarebbero venuti al pettine. Fu un trionfo. Per Rafa, of course. La solita vittoria a Parigi, con la mitica semifinale dello smashonzo di Djokovic vinta 9-7 al quinto, e il più sorprendente trionfo di New York, sempre sul rivale serbo, che nel frattempo aveva preso il posto di Federer a livello di rivalità personale.
Dopo alterne vicende arriviamo al 2015, l’anno in cui mi convinco definitivamente di aver avuto ragione. Arriva la seconda sconfitta in carriera al Roland Garros – da Djokovic, addirittura per 3-0 – e l’incredibile rimonta subita da Fognini – da 2-0 a 2-3 – al terzo turno dell’Us Open. Nadal aveva da poco compiuto 29 anni, la mia profezia si era compiuta: era fatta, avevo avuto ragione io!
Macché. Gli anni successivi hanno dimostrato – e mi hanno dimostrato – una volta di più cosa significhi essere dei campioni assoluti, dei fuoriclasse nel vero senso della parola, dentro e fuori dal campo. Mettiamo per un attimo da parte Parigi e il Roland Garros. Chi avrebbe mai immaginato 15 anni fa che il maiorchino sarebbe stato capace di vincere per ben 4 volte l’Us Open? Per capirci, una sola volta meno di Federer (che però non lo vince dal 2008) e addirittura una volta in più dello specialista Djokovic (per altro superato 2 volte su 3 in finale).
Parigi poi, vabbè, è proprio una storia a parte. E già che ci sono, voglio chiedere scusa anche a tutte quelle persone che soltanto due anni fa sostenevano che gli 11 titoli parigini di Nadal sarebbero stati più difficili da eguagliare rispetto ai 20 titoli Slam di Federer. All’epoca non ero d’accordo, forse per l’enormità dell’impresa appena compiuta dal fenomeno svizzero. Ancora una volta è stato Rafa a dare la risposta esatta. E ancora una volta io avevo torto e lui ragione: un paio d’anni, et voilà, i 20 titoli Slam di Federer che a me sembravano irraggiungibili lui li ha raggiunti, arrivando nel frattempo a 13 (TRE-DI-CI) Roland Garros. Un mostro!
A tal proposito, vorrei concludere questa reprimenda verso me stesso con una modesta ma seria proposta: con tutto il rispetto per il grande Philippe Chatrier, il centrale di Parigi diventi il “Rafael Nadal”. Non è francese? Chi se ne importa! Nessuno più del maiorchino meriterebbe questo onore.
Ecco, ho finito. Mi fanno male le ginocchia, non è comodo scrivere stando sui ceci. Spero almeno che Rafa nel frattempo mi abbia perdonato!
Enzo Cherici
L’attesa nobilita. Per il ritorno di Roger facciamone un’arte
Fuori un altro: è finito anche questo strano Roland Garros, con il 20° Slam di Rafa, a cui vanno tutti gli onori.
E siamo ancora qui ad attendere il Re, perché torni a dare sapore a questo tennis “nella bolla”. Certo, in questi mesi ci siamo rallegrati con Sinner, Musetti e Trevisan, senza dimenticare Berrettini, anche se ci ha giocato qualche scherzo. Eppure, parafrasando Nanni in una scena di Caro Diario: “Bello vedere il tennis, ma vedere Roger è tutta un’altra cosa!”, anche rispetto a una finale Rafa-Nole. Non ci resta che esercitarci nell’arte dell’attesa. Provo allora a tracciare un vademecum, avvertendo subito che il tennis questa volta rimane sullo sfondo. Chi vuole, legga il pezzo facendo scorrere qualche immagine di repertorio del Magnifico.
Nei tempi del “tutto e subito”, parlare di attesa può rischiare l’impopolarità, se non la più totale incomprensione: a molti infatti attesa appare sinonimo di passività e inerzia, di evasione e deresponsabilizzazione. Se l’etimologia latina non mente, ad-tendere è invece “tendere verso”, “avere l’attenzione rivolta a”, praticare un movimento centrifugo di uscita da sé in direzione di un altro, di un avvenire possibile. Colui che attende, fa innanzitutto l’esperienza della mancanza, del vuoto. Di conseguenza, l’attesa è sempre invocazione di una presenza, di una pienezza. Fino al compimento ultimo, la venuta del Signore alla fine della storia. Ma qui usciamo decisamente dal seminato, in relazione al nostro sito: pardon!
L’attesa è un’azione che opera qui e ora sul futuro, lo attira. Richiede grande pazienza, ossia l’arte di vivere l’incompiuto, di vivere la parzialità e la frammentazione del presente senza disperare. (Per dire, a questo ci si esercita anche guardando gli infiniti scambi da braccio di ferro sulla terra rossa, senza soluzione di continuità se non l’errore dell’avversario sfinito). Ricordate il fremito che ci attraversava quando la tecnologia era più arretrata, e si attendeva la lettera cartacea di una persona amata, per di più con i tempi delle Poste italiane? Ecco l’attesa nel suo pieno fulgore!
L’attesa paziente è segno di forza e solidità, di stabilità e convinzione, non di inerte debolezza. Attendere costa fatica, eppure è una grande arte, perché insegna a disciplinare il proprio desiderio, a frapporre una distanza tra sé e chi si desidera, a passare da un atteggiamento di consumo a uno di condivisione. Sai mai che, quando Roger tornerà in campo, qualcun altro, stimolato dalla nostra attesa di questi lunghi mesi, non chieda di poterne godere con noi… Ovviamente in silenzio, come esige la contemplazione del “genio all’opera”.
Infine, l’attesa è sorella dell’attenzione, cioè del fare bene e con qualità ogni cosa: tutto, davvero tutto. Attesa è attenzione perseverante, è saper durare nella qualità. Scriveva a ragione Simone Weil: “Vi è dentro di noi qualcosa che rifugge la vera attenzione, molto più di quanto alla carne ripugni la fatica”. Fatica benedetta, in realtà, perché ci purifica, ci porta all’essenziale: nell’attenzione si può scorgere ciò che ci fa vivere in verità, dunque ciò su cui fissiamo il desiderio, l’attesa, addirittura l’amore.
Noi siamo attesa e attenzione, siamo un ad- puntato verso qualcosa (a ciascuno di comprendere verso cosa…): non dimentichiamolo, mentre aspettiamo l’ormai prossimo avvenire (ad-venire!) del rientro in campo del Re, teso verso la perla numero 21.
Ludwig Monti