Il match point della finale degli Open d’Australia 2002 sembra quello del torneo sociale: uno tira un pallonetto lungo, l’altro fa il pugnetto e sorride, senza esagerare. Tempo dopo, avrebbe detto che non gli pareva il caso di fare il matto, perché in fondo aveva vinto solo un torneo; il fatto che fosse uno Slam non gli pareva sufficiente per darsi a festeggiamenti folli.
Cinquemila giorni fa, mentre l’euro entrava in circolazione, Thomas Johansson regalava l’ultimo Slam alla Svezia e nessuno se ne poteva rendere conto, che una storia fosse appena finita. Presi come eravamo dallo stupore per quel vincitore un po’ così, ma neppure tanto perché in fondo era uno dei soliti svedesi, avevamo perso il contatto con la realtà: lassù, un mondo era già morto. Quello del tennis, trapiantato a forza e attecchito clamorosamente in un clima maledettamente ostile.
«Quando sono cresciuto io, il tennis era dappertutto. Avevamo coniato un gioco efficace, una spanna avanti a tutti gli altri, e tutti imparavamo a giocare a quel modo: dei solidi colpi di rimbalzo dalla linea di fondo, senza mai sbagliare. Quello è stato davvero un periodo eccezionale». A parlare a Mats Holm e Ulf Roosvald, autori di Game, Set, Match (ADD editore) è Thomas Enqvist, uno degli ultimi grandi venuti da lassù.
A Wimbledon 1988, due delle prime tre teste di serie (Mats Wilander e Stefan Edberg) erano svedesi. Nel tabellone se ne contavano tredici. La Svezia aveva dieci giocatori nei primi 50 del mondo, ed era normale.
La vera domanda, oggi che il miglior giocatore svedese è Elias Ymer, numero 145 e più scuro del cioccolato fondente perché figlio di un immigrato etiope, non è la ragione per cui il tennis in Svezia sia morto. Piuttosto, è capire come sia potuto diventare uno sport nazionale dai successi travolgenti, in uno Stato di otto milioni di persone con un clima adatto all’hockey e al biathlon. Come possono essere nati, uno via l’altro, Bjorn Borg, Mats Wilander, Stefan Edberg e gli altri? Intendendosi per altri, sia chiaro, tutti i campioni arrivati almeno (!) tra i primi dieci: Anders Jarryd, Joakim Nystrom, Kent Carlsson, Henrik Sundstrom, Mikael Pernfors, Jonas Svensson, Magnus Larsson, Magnus Gustafsson, Jonas Bjorkman, Magnus Norman, Thomas Enqvist, Thomas Johansson, Joakim Johansson, Robin Soderling.
«Lui è l’unico tennista al mondo a non essere mai stato sconfitto. Chi stava per affrontarlo, si sentiva dire: “Non battete il re”». A parlare è Percy Rosberg, 83 anni, ex giocatore e coach dalle straordinarie qualità. Ci torneremo tra poco. Il primo tennista svedese – a raccontare sono Holm e Roosvald – si chiamava Gustav ed era il principe ereditario. Nell’estate del 1879 aveva compiuto 21 anni e aveva trascorso quattro mesi in Inghilterra, l’ultima tappa del suo grand tour, il viaggio di formazione che i giovani rampolli della nobiltà intraprendevano anche con lo scopo di trovare una consorte presso una delle corti straniere. La successione al trono andava garantita. Gustav era partito l’anno precedente e aveva già visitato la corte danese, Costantinopoli, Roma e Parigi, senza pero riuscire nell’impresa. In Inghilterra gli venne presentata la principessa Beatrice: per la casata reale svedese un matrimonio del genere sarebbe stato vantaggioso e auspicabile, ma non se ne fece nulla. Gustav non era interessato. In Inghilterra era invece stato catturato da qualcos’altro, un nuovo gioco. Aveva visto giovanotti vestiti di bianco muoversi con eleganza su campi rettangolari di erba ben curata: in mano avevano una racchetta e giocavano a uno sport che si chiamava lawn tennis. Gustav ne fu più che catturato: se ne innamorò perdutamente.
La miccia si accese così: un re appassionato, anzi, perdutamente innamorato di quello sport nel quale era un impiastro, ma guai a dirglielo. La detonazione arrivò più tardi, quando ancora quella strada disciplina era praticata dai pochi abbienti, perché attrezzatura e campi costavano troppo per il popolo: la Coppa Davis in tivù. E, in qualche modo, c’entriamo pure noi. Infatti, per il popolo svedese, «Jan-Erik Lundqvist diventò Janne quando, di fronte a milioni di spettatori, vinse due singoli in Coppa Davis e giocò in doppio nell’incontro contro l’Italia, la migliore squadra europea di allora. Il match fu molto emozionante e arrivò fino al quinto e conclusivo set. Gli italiani Nicola Pietrangeli e Orlando Sirola erano una coppia ben rodata che aveva inanellato una serie di trentatre vittorie nei doppi di Davis, e nessuno pensava che la coppia svedese formata da Janne Lundqvist e Ulf Schmidt avesse la minima possibilità di batterli. Nella fase finale gli italiani si trovavano sempre in vantaggio e il pubblico svedese era combattuto tra delusione e speranza. In più di una occasione l’Italia si trovò a due sole palle dalla vittoria, e la sconfitta per la Svezia sembrava ormai certa. Gli svedesi però riuscirono a ribaltare la situazione e vinsero 9-7. L’intero stadio di Bastad esplose in un tripudio di festeggiamenti e vicino al campo centrale si scatenarono i cori. Dal divano davanti alla Tv, una larga fetta di pubblico inizio a prendere confidenza con quelle strane regole e con il conteggio dei punti; soprattutto, si iniziò a sperimentare quanto potesse essere emozionante e ricco di significato un incontro di tennis. Fu in quel momento che la metamorfosi da passatempo reale a sport popolare ebbe inizio».
E fu proprio affidato a Percy Rosberg il compito di selezionare le vagonate di ragazzini che, improvvisamente, presero a frequentare i campi da tennis della Salk-hallen, costruita in periferia a Stoccolma. Ne arrivavano ogni fine settimana, da tutti i distretti del Paese. Tutti volevano il tennis. Gli insegnanti di educazione fisica compravano rudimentali macchine sparapalle per insegnare il dritto ai liceali, i genitori si tesseravano al circolo e portavano tutta la famiglia, lo Stato fece la sua parte e prese a investire: campi comunali, materiale a prezzi accessibili, maestri federali, promozioni, pubblicità, iniziative scolastiche e non. Finché, un bel giorno del 1965, nel paesino di Sodertalje un commesso di un negozio di alimentari, il signor Rune, vinse un torneo di ping pong e ricevette in premio una racchetta da tennis che regalò a suo figlio di nove anni. Solo che al club del paese, in piena sbornia post Davis, non c’era più posto, e il ragazzino imparò a giocare contro il portone del garage aprendo di dritto come a ping pong, e di rovescio come i suoi compagni giocatori di hockey ghiaccio. Il figlio del commesso era Bjorn Borg e, quando Rosberg lo vide, capì che aveva qualcosa di speciale: non sbagliava mai, non si stancava mai, voleva vincere e basta. Solo vincere.
Borg diventò una superstar. Ancora diciottenne, a Wimbledon c’erano le ragazzine che invadevano il sacro suolo dell’All England Club per toccare una spalla o strappare una ciocca di quel cherubino. Sulla sua scia, arrivarono decine di ragazzi col sogno, come recitava una pubblicità statale che tappezzava strade e piazze, di “girare il mondo in pantaloncini grazie al tennis”. Arruolati, come in Marina. Il tennis, un gioco sconosciuto ed estraneo alla cultura svedese, dal capriccio di un re si fece materia di interesse nazionale: entrò nei programmi ministeriali, era materia di insegnamento e, socialmente, un distinto mezzo di successo per giovani in cerca di un mestiere redditizio e capace di fa conoscere loro tutto il pianeta. Il primo ministro Olof Palme spalleggiava la popolarità del tennis e proprio il tennis fu tra le ultime sue attività in vita la mattina del 25 febbraio di trent’anni fa, quando venne assassinato per strada.
Finché, un giorno, la Svezia si svegliò ed era la nazione più forte al mondo. In poco più di vent’anni, dal successo del 1975 arrivato grazie agli sberloni in topspin del teenager Borg contro Higueras e Orantes, vinse sette volte la Davis. Borg raccattò sei Roland Garros e cinque Wimbledon, e chissà se avesse giocato in Australia; Wilander vinse tre Slam su quattro nel 1988 e sette nel complesso prima di mollare il colpo; il panda della volée Stefan Edberg, cui proprio Rosberg consigliò di smetterla col rovescio a due mani, anche se in Svezia era pressoché obbligatorio, ne raccolse sei. Morto un Bjorn, c’era Mats; finito Mats, arrivava Stefan. In un continuum di trionfi che fece diventare tutto scontato, tutto acquisito per diritto naturale che nello sport, accidenti, non esiste: « Uno come Ulf Stenlund, che era ventitreesimo al mondo negli anni Ottanta – racconta nel libro Enqvist – non ha mai ricevuto nessuna considerazione. Al giorno d’oggi, sarebbe una stella». Lo stesso Enqvist, qualche anno fa, dalla gente di Svezia era stimato con riserve, perché uno che gioca una sola finale Slam e arriva al numero 4 del ranking non era poi granché, per i parametri del suo Paese. Adesso, che Lindell e Rosenholm non riescono manco a qualificarsi nei challenger, chissà cosa darebbero per tirargli indietro i chilometri e tornare a farlo giocare un po’.
Senza togliervi il gusto della lettura, possiamo raccontare il finale di questa avventura di innamoramento collettivo, perché lo conoscono tutti: non c’è più nessuno. In Davis, la Svezia è costretta a schierare giocatori che, forse, perderebbero ancora contro Jonas Bjorkman che a 44 anni è in formissima e lavora per Eurosport durante gli Slam. I ragazzi, racconta Rosberg, iniziano a non sapere neanche più cosa sia il tennis: passano alla Salk-hallen, dove tutti i grandi di Svezia sono stati creati e plasmati per il successo, e preferiscono attaccarsi al telefonino. Se ci sono ore libere e gratuite per loro, pazienza: lasciano spesso i campi liberi. Se giocano e perdono, pace: non hanno voglia di rivincita, tornano a casa dai loro genitori e si fanno mantenere a studiare tra uno sbadiglio e un’ora in palestra per indossare meglio la t-shirt attillata.
Gustav è morto nel 1950, Edberg ha vinto l’ultimo Slam nel 1992; esattamente cinque anni fa, anche se fino a ieri l’altro non riusciva ad ammetterlo, Robin Soderling giocò la sua ultima partita. Non è rimasto niente, di quel castello costruito sul ghiaccio. Ma è stata la più bella storia d’amore sportivo mai sbocciata al gelo.
IL LIBRO
Tra gli anni Settanta e Novanta un Paese di 8 milioni di abitanti balza ai vertici del tennis mondiale grazie a tre mostri sacri: Bjorn Borg, Mats Wilander e Stefan Edberg. I tre hanno vinto in totale 24 titoli del Grande Slam. Attraverso racconti, aneddoti e testimonianze su loro e sui grandi tennisti dell’epoca (da Panatta a Nastase, da McEnroe a Connors), il libro ripercorre gli anni d’oro di una nazione in cui il tennis era più di uno sport nazionale: ogni cittadina aveva decine di campi, si organizzavano tornei dappertutto, anche all’interno dei condomini. La Svezia aveva saputo preparare il proprio successo investendo nella scuola e nel welfare, mettendo lo sport, e il tennis in particolare, al centro della formazione dei propri cittadini.
Game, Set, Match (ADD editore, 384 pagine, 2016) unisce, al racconto della vita dei tre campioni e delle loro partite più celebri, quello di una nazione (da molti definita come “socialista senza i socialisti”) che ha saputo cullare con successo i propri talenti. Un libro di grande tennis, di partite memorabili e di uomini straordinari.