Scritto da Federico Ferrero Photos by Getty Images Ero troppo piccolo e il salotto di casa Ferrero non era piazzato sufficientemente vicino all'Adriatico per captare il segnale di Telecapodistria. Del Super Saturday del 1984, che compie trent'anni da morto in questi giorni (anzi, nel giorno segnato dall'armistizio del 1943), non ho che ricordi artefatti, costruiti nel tempo da letture e racconti di prima, seconda e varie altre mani. Ma poiché si è deciso che le mie frequentazioni con l'Unità {tip Che ha chiuso dal primo agosto, festeggiando alla grande il suo, di compleanno, a pochi mesi dal 90esimo anniversario dalla fondazione di Gramsci. Ma forse non è detta l’ultima parola: su www.unita.info trovate qualche aggiornamento sulla intricata e, su tutto, triste vicenda di un quotidiano per troppo tempo, poco e mal gestito.} (1){/tip} e l'Espresso farebbero di me, inevitabilmente, un giornalista di sinistra, non vi stupirete se la notizia dell'abolizione del sabato-abbuffata dello US Open, l'apoteosi dello sport piegato alla logica del dollaro, rallegrò un fine settimana di estate calante del 2012. L'8 settembre 1984, John McEnroe impiegò cinque set per battere l'eterno rivale Jimmy Connors. Il match terminò alle 23.16. Ciò sebbene il Super Saturday, l'orgiastico megapanino da fast food farcito di puzza di fritto, semifinale maschile, hot dog, finale femminile, maionese e altra semifinale maschile incarnasse come poche altre tradizioni {tip Negli States, lo saprete, tutto ciò che ha almeno vent’anni è già classico, o vecchio. Lo Shea Stadium, costruito nel 1961 e compagno di terreno di Flushing Meadows, fu abbattuto nel 2008 e veniva ormai trattato come un Colosseo.} (2) {/tip}made in Usa la mentalità ingorda del cittadino americano. Sarà pure stato, il SS, un evento rutilante, in linea con la mania di gigantismo già applicata con successo alle porzioni in tavola, alle carrozzerie e cilindrate delle automobili, ai parcheggi e alla politica estera; ciononostante, ho sempre pensato che quella cosa lì non si avesse da fare, nossignore. Vero è che una fortuna sfacciata accompagnò il primo tentativo di compressione tennistica in un giorno di tennis sfrenato: fu l'inondazione, l'overdose di classe ed emozioni dell'8 settembre 1984, quando sul Louis Armstrong Stadium (il nuovo centrale, l'Ashe, sarebbe arrivato nel 1997 {tip E nacque vecchio: per essere uno stadio terminato a tre anni dal nuovo millennio, non venne previsto il tetto retrattile. E così, al Queens hanno un catino da 22.547 persone che, se piove, possono maledire l’effetto serra e aprire l’ombrello. } (3) {/tip}) si presero per mano e accompagnarono in paradiso gli appassionati non una, ma tre sfide memorabili. Il giorno più bello del tennis fu tale, sì, ma grazie a Chris Evert, Martina Navratilova, John McEnroe, Pat Cash, Ivan Lendl, Jimmy Connors e non a quella megalomania così yankee. Che quei sei fenomeni, tutti in giornata di grazia, fossero stati riuniti sullo stesso palco in dodici ore di show ininterrotto, mai stanco, mai scontato, fu in definitiva un caso. Tanto da rimanere unico, nella storia del torneo. Un giovanissimo Pat Cash arrivò a un punto dall'impresa contro Ivan Lendl. Impiegò tre anni per riprendersi. Ripassiamo la storia: la Cbs è il network titolare dei diritti dello US Open dal 1968, anno della liberalizzazione del tennis, finalmente aperto a professionisti e (finti) dilettanti dopo decenni grotteschi di circuiti paralleli. Di concerto con la federazione Usa e senza che le associazioni dei giocatori battessero ciglio {tip Bastò sventolare i dollari degli incassi: tutti d’accordo.} (4) {/tip}, l'emittente aveva congegnato, nei primi anni Ottanta, la programmazione più efficace per raccattare soldi dagli sponsor: vendere un mostro sportivo del weekend a prezzi da Superbowl, offrendo tre partite di lusso dello US Open in una giornata di fine settimana. Cbs, quindi, ottenne di mettere in campo tre dei quattro match rimasti da disputare, tutti il sabato. Non solo: uno dietro l'altro, dall'aperitivo antimeridiano fino all'esaurimento, senza pause, senza clausole di salvaguardia not before, la dicitura che prescrive l'inizio di una partita non prima di una certa ora, in modo da offrire a chi gioca un punto di riferimento e una qualche certezza, così come per chi ha in animo di seguire l'evento. In nome di san Fatturato si compresse la crème del torneo in una sola, sovrabbondante giornata di bulimia racchettara, dando la priorità alla continuità dello show: dalle undici del mattino alla sera, su quel campo, si doveva vedere del tennis. Possibilmente, il miglior tennis dello Slam. Inutile sottolineare quanto la non-programmazione della giornata, a parte la sistemazione delle donne in mezzo ai match maschili, era stata decisa in spregio del santo riposo per le donne (semifinali il venerdì, finale il sabato) e delle pari opportunità per i maschi, chiamati a disputarsi la semifinale (tre set su cinque) e poi a tornare in campo qualche ora più tardi, di domenica, per giocarsi il titolo. La depressione tennistica di Andre Agassi, dopo la finale dello US Open 1995 ingiustamente persa contro Pete Sampras {tip Ingiustamente perché non fu giocata ad armi pari: con le stesse ore di riposo, quell’Agassi avrebbe battuto Pistol Pete. Accadeva di rado, ma l’Agassi dell’estate del 1995 era superiore a Sampras.}  (5) {/tip}, condensò in un episodio, mai spinto alla minaccia di sciopero, la frustrazione di generazioni di campioni, piegati a giocarsi il sabato notte una semifinale, iniziata magari tardissimo per colpa dei due match precedenti e magari finita tardissimo dopo quattro o cinque set, e la finale nel dì di festa. Fu così che la summer of revenge, l'estate della vendetta ispirata ad Agassi da una conferenza stampa di Becker a Wimbledon, nella quale BB lo aveva pesantemente offeso, venne ammazzata sul centrale amico di Flushing Meadows, immolata sull'altare dell'audience. Dopo 26 vittorie consecutive tra Washington DC, Montreal, Cincinnati e New Haven, il Kid si era fatto oggettivamente imbattibile. Pur storicamente inferiore al miglior Sampras, aveva semplicemente deciso, da quel maledetto giorno a Wimbledon, che non avrebbe più perso, almeno non fino a che la sua rabbia non si fosse placata. Giocava e colpiva torvo, ancora più anticipato e letale; rispondeva coi piedi sulla riga di fondo puntando la palla col ghigno del killer prezzolato, risoluto a portare in fondo il lavoro: solo vittorie, per sempre. Molto americano, come l'operazione Vendetta Infinita contro Bin Laden, poi rinominata per un riconosciuto eccesso lessicale. Jimmy Connors e la sua fedele Wilson T2000 hanno spesso raggiunto il fatidico Super Saturday. Per tutto luglio e agosto del 1995 l'operazione funzionò alla grande: Andre tritò chiunque, pure King Pete nella finale dell'Open del Canada. Allo US Open, era il favorito. Gli ricapitò Becker in semifinale, lo (ab)battè in quattro set di livello tecnico commovente. «Pete, se mi stai guardando: occhio, che arrivo!», urlò Andre nel gelato della Cbs dopo il match point. Pete lo stava guardando, sì, ma dall'albergo: la sua partita era iniziata nove ore prima. In mezzo, la finale delle donne, un emozionante ritorno al grande tennis di Monica Seles dopo l'accoltellamento del 1993. Lei e Steffi Graf lottarono per due ore, mentre Sampras si faceva massaggiare e servire la merenda e Agassi si consumava nell'attesa. «Ho un sacco di tempo per riposarmi», chiosò AA quando era già ora di andare a letto. Non era vero. Si addormentò intorno alle due. L'entusiasmo per le 26 vittorie e l'adrenalina non sopperirono al calo di energie. Si fece sfuggire quella finale che consacrò lo scambio degli anni Novanta {tip È il set point del primo set (http://youtu.be/_U7lMcKJiK8, al minuto 1:10) } (6) {/tip}, e la magia della rivalsa morì sul quel rettangolo di cemento appiccicoso per il caldo, in un match giocato a condizioni visibilmente impari. Per Agassi fu una ferita mai guarita: ricordando l'episodio, nell'inverno del 2013, durante la sua visita in Italia, in una curiosa traslazione di responsabilità mi parlò del signor Sampras come di «quel figlio di». Eppure la colpa era della CBS, mica di Pete. E di quella fortuna sfacciata del 1984: al primo tentativo di concentrare quel troppo tennis in un'unica, immensa mangiata per gli appassionati e per la tivù commerciale, il caso donò alla storia dello sport tre partite da urlo. Qualche mese prima, a Roland Garros, Ivan Lendl beffò John McEnroe. A New York, nonostante le fatiche della sera prima, l'americano si prese una gustosa rivincita. La prima semifinale maschile del 1984 iniziò alle 11 e sette minuti del mattino, subito dopo una sfiziosa esibizione di entrata tra Stan Smith e John Newcombe, che nel 1984 avevano una quarantina d'anni e giocavano ancora da dio. Pat Cash, australiano di 19 anni, forzuto, bello, dannato e con due volèe secche come spari, sprecò un match point sul 6-5 al quinto contro Ivan Lendl e perse al tie-break decisivo. Macché sprecò: Lendl lo scavalcò con un lob di diritto in corsa favoloso, sulla palla che valeva la finale {tip http://youtu.be/lX7SbR7jKrE, al minuto 6:30. A Cash venne rubato un ace, poco più tardi, sulla parità, al minuto 7.30.} (7) {/tip}. Cash ci mise tre anni, prima di riprendersi da quello shock, altrimenti avrebbe vinto molto più di quel Wimbledon solitario del 1987. Esaurita la più feroce delle battaglie ammesse dal punteggio, si giocarono il titolo femminile l'alfa e l'omega del tennis, Evert e Navratilova, fondocampo e volèe, mancina e destra, americana ed ex Patto di Varsavia. Tre set di tennis eccellente, che per i tempi era una rarità, parlando di donne. La gente era già esausta da Lendl e Cash, ma pareva un banchetto di Trimalcione: più mangi e ti riempi, più te ne portano e ti ingozzi. Il popolo del tennis ebbe una dose finale di sballo in vena: John McEnroe contro Jimmy Connors. A New York, figurarsi: come mettere in gara Frank Sinatra ed Elvis Presley a Broadway, a chiusura di una Woodstock del tennis con tre concerti di Beatles, Stones e Pink Floyd, uno in fila all'altro. McGenius, in quell'estate di Olimpiadi californiane, era al suo apice: leggero come Nureyev, toccava la palla con una confidenza mai vista in cent'anni di tennis. Connors, 32enne da pochi giorni, spaccava ancora la legna con la sua T2000 di metallo, e il rovescio procurava danni in quantità. Finì al quinto, e dove sennò. Erano le 23 e 16 minuti. A mezzanotte già si acclamava l'otto settembre come il nuovo Tennis Day. Nel 1984, Chris Evert e Martina Navratilova diedero vita a una splendida finale femminile. Fu uno degli episodi più emozionanti tra i loro 80 scontri diretti. Del Super Saturday si è contestata a lungo, e inutilmente, la incostituzionalità. Nel caso in cui il secondo semifinalista si fosse trovato costretto a giocare fino a notte fonda per sfidare, la domenica, il primo, magari uscito indenne da tre set giocati all'ora di pranzo, l'ingiustizia sarebbe stata palese. E lo fu, talora: Greg Rusedski, nel 1997, forse avrebbe ceduto il passo a Rafter anche da riposato, senza le ore spese per spezzare Jonas Bjorkman 7-5 al quinto. Forse. Certamente, il McEnroe della finale del 1985 aveva in circolo tossine della notte precedente, i cinque set contro Wilander, sicché Lendl ne approfittò per agguantare il primo dei tre US Open consecutivi (nel 1986, l'outsider Miloslav Mecir vide affievolirsi le già sparute chance di vittoria dalla programmazione del Super Saturday: a pranzo, Ivan aveva piegato le resistenze di Edberg in tre set; a cena, iniziò il primo dei cinque set tra Mecir e Becker). Per tacere, poi, dei Super Saturday noiosi, scarsi, in cui la gente avrebbe voluto i grandi e invece toccò sorbirsi Pioline-Masur, o Karel Novacek, o Darren Cahill. Per difendere la sua scelta, insieme all'ovvio argomento che i giocatori del Grande Sabato non si potevano scegliere (Cbs l'avrebbe fatto volentieri), ATP e Cbs fornivano ogni anno statistiche tendenti a dimostrare che i vincitori dello US Open erano stati più spesso i secondi, che non i primi semifinalisti del sabato. A SINISTRA: Ivan Lendl ha raggiunto per otto volte consecutive la finale a Flushing Meadows. A DESTRA: la sua maniacale abitudine di cospargere il manico di segatura. Come dire: anche se ci si riposa poco, la competizione non è falsata. Del resto capitò già nella prima edizione: il giocatore con meno ore di sonno e recupero a disposizione, McEnroe, la domenica spazzò via ugualmente il riposato, Lendl. Ma quell'anno, sul cemento, John avrebbe battuto Ivan anche di ritorno da una nottata alcolica allo Studio 54. Lo stesso Sampras, nel 1990, aveva faticato fino a tarda sera contro McEnroe, eppure il rilassato Agassi di quella domenica di settembre, certo di vincere il suo primo Slam col suo punk tennis tutto corri&tira, era finito stordito e infilzato dal gioco piatto, classico e devastante di Sweet Pete. Ma i numeri dicono e tacciono: se sei più forte, ti è possibile vincere uno Slam anche in condizioni di svantaggio. Tensione, giornate storte, incompatibilità tecniche si sommano alla freschezza nel distribuire le possibilità di vittoria. Rimane che quel Super Saturday era stata un'invenzione puramente folkloristica, in barba al dogma di offrire agli attori le migliori condizioni per una performance perfetta: mai come a New York i protagonisti dello spettacolo hanno obbedito, per un trentennio, ai dettami della legge della pubblicità. VIDEO: Il trionfo di Martina Al termine di una lunga battaglia contro Chris Evert, Martina Navratilova si è aggiudicata lo Us Open 1984. Finché, a risistemare il ritmo naturale degli eventi, ha finito per pensarci il buco dell'ozono, o la sfortuna, o ciò che fu. Non si è più riusciti a terminare uno Slam a New York entro la domenica per cinque anni consecutivi, fino al 2012. Piogge da monsoni, trombe d'aria, acquazzoni e venti triestini hanno incoraggiato il sindacato dei tennisti a chiedere una revisione del piano di gioco dello US Open, accolto dalla direzione del torneo e accettato, pur con tentativi di resistenza, da Cbs. Col nuovo millennio, l'unica concessione era stata elargita alle signore del tennis, che si erano garantite una prima serata di sabato, con ascolti di lusso (nel 2001 la prima finale femminile fissata in prime time fu la sfida tra Venus e Serena, seguita in patria da più di venti milioni di appassionati). Perché, ci crediate o no, fino all'anno 2000 le donne erano costrette ad attendere il termine della prima semifinale degli uomini per giocare, a seguire, il loro incontro. Una follia: la finale dello US Open femminile poteva iniziare in qualunque momento, dall'ora di pranzo in là, a seconda di ciò che capitava nel match maschile. Dallo scorso anno, il sabato della seconda settimana è dedicato agli uomini. Senza partita serale, a meno di imprevisti. La domenica, a mezzogiorno, si gioca la finale femminile. Gli uomini tornano in campo il lunedì, alle cinque. Certo, fare audience di lunedì pomeriggio è impossibile. Ma lo US Open rimane l'unico dei quattro Slam a cincischiare nei primi giorni del torneo, impiegando tre giorni per finire i primi turni. Non hanno mai voluto piegarsi alle sane abitudini del resto del mondo, il sabato consacrato alla finale rosa e la domenica a quella azzurra, perché più ancora dello sport conta ciò che lo sport dà in contributo alla causa dello show. E la dismissione del Grande Sabato ha lasciato, in eredità, un nuovissimo Loffio Lunedì. Il Louis Armstrong Stadium: inaugurato nel 1978, è rimasto il campo principale dell'Open degli Stati Uniti fino al 1996. L'anno dopo sarebbe arrivato l'Arthur Ashe Stadium.

Ero troppo piccolo e il salotto di casa Ferrero non era piazzato sufficientemente vicino all'Adriatico per captare il segnale di Telecapodistria. Del Super Saturday del 1984, che compie trent'anni da morto in questi giorni (anzi, nel giorno segnato dall'armistizio del 1943), non ho che ricordi artefatti, costruiti nel tempo da letture e racconti di prima, seconda e varie altre mani.

Ma poiché si è deciso che le mie frequentazioni con l'Unità {tip Che ha chiuso dal primo agosto, festeggiando alla grande il suo, di compleanno, a pochi mesi dal 90esimo anniversario dalla fondazione di Gramsci. Ma forse non è detta l’ultima parola: su www.unita.info trovate qualche aggiornamento sulla intricata e, su tutto, triste vicenda di un quotidiano per troppo tempo, poco e mal gestito.} (1){/tip} e l'Espresso farebbero di me, inevitabilmente, un giornalista di sinistra, non vi stupirete se la notizia dell'abolizione del sabato-abbuffata dello US Open, l'apoteosi dello sport piegato alla logica del dollaro, rallegrò un fine settimana di estate calante del 2012.

Ciò sebbene il Super Saturday, l'orgiastico megapanino da fast food farcito di puzza di fritto, semifinale maschile, hot dog, finale femminile, maionese e altra semifinale maschile incarnasse come poche altre tradizioni {tip Negli States, lo saprete, tutto ciò che ha almeno vent’anni è già classico, o vecchio. Lo Shea Stadium, costruito nel 1961 e compagno di terreno di Flushing Meadows, fu abbattuto nel 2008 e veniva ormai trattato come un Colosseo.} (2) {/tip}made in Usa la mentalità ingorda del cittadino americano.

Sarà pure stato, il SS, un evento rutilante, in linea con la mania di gigantismo già applicata con successo alle porzioni in tavola, alle carrozzerie e cilindrate delle automobili, ai parcheggi e alla politica estera; ciononostante, ho sempre pensato che quella cosa lì non si avesse da fare, nossignore.

Vero è che una fortuna sfacciata accompagnò il primo tentativo di compressione tennistica in un giorno di tennis sfrenato: fu l'inondazione, l'overdose di classe ed emozioni dell'8 settembre 1984, quando sul Louis Armstrong Stadium (il nuovo centrale, l'Ashe, sarebbe arrivato nel 1997 {tip E nacque vecchio: per essere uno stadio terminato a tre anni dal nuovo millennio, non venne previsto il tetto retrattile. E così, al Queens hanno un catino da 22.547 persone che, se piove, possono maledire l’effetto serra e aprire l’ombrello.
} (3) {/tip}) si presero per mano e accompagnarono in paradiso gli appassionati non una, ma tre sfide memorabili.

Il giorno più bello del tennis fu tale, sì, ma grazie a Chris Evert, Martina Navratilova, John McEnroe, Pat Cash, Ivan Lendl, Jimmy Connors e non a quella megalomania così yankee.

Che quei sei fenomeni, tutti in giornata di grazia, fossero stati riuniti sullo stesso palco in dodici ore di show ininterrotto, mai stanco, mai scontato, fu in definitiva un caso. Tanto da rimanere unico, nella storia del torneo.

Ripassiamo la storia: la Cbs è il network titolare dei diritti dello US Open dal 1968, anno della liberalizzazione del tennis, finalmente aperto a professionisti e (finti) dilettanti dopo decenni grotteschi di circuiti paralleli. Di concerto con la federazione Usa e senza che le associazioni dei giocatori battessero ciglio {tip Bastò sventolare i dollari degli incassi: tutti d’accordo.} (4) {/tip}, l'emittente aveva congegnato, nei primi anni Ottanta, la programmazione più efficace per raccattare soldi dagli sponsor: vendere un mostro sportivo del weekend a prezzi da Superbowl, offrendo tre partite di lusso dello US Open in una giornata di fine settimana. Cbs, quindi, ottenne di mettere in campo tre dei quattro match rimasti da disputare, tutti il sabato.

Non solo: uno dietro l'altro, dall'aperitivo antimeridiano fino all'esaurimento, senza pause, senza clausole di salvaguardia not before, la dicitura che prescrive l'inizio di una partita non prima di una certa ora, in modo da offrire a chi gioca un punto di riferimento e una qualche certezza, così come per chi ha in animo di seguire l'evento. In nome di san Fatturato si compresse la crème del torneo in una sola, sovrabbondante giornata di bulimia racchettara, dando la priorità alla continuità dello show: dalle undici del mattino alla sera, su quel campo, si doveva vedere del tennis. Possibilmente, il miglior tennis dello Slam.

Inutile sottolineare quanto la non-programmazione della giornata, a parte la sistemazione delle donne in mezzo ai match maschili, era stata decisa in spregio del santo riposo per le donne (semifinali il venerdì, finale il sabato) e delle pari opportunità per i maschi, chiamati a disputarsi la semifinale (tre set su cinque) e poi a tornare in campo qualche ora più tardi, di domenica, per giocarsi il titolo.

La depressione tennistica di Andre Agassi, dopo la finale dello US Open 1995 ingiustamente persa contro Pete Sampras {tip Ingiustamente perché non fu giocata ad armi pari: con le stesse ore di riposo, quell’Agassi avrebbe battuto Pistol Pete. Accadeva di rado, ma l’Agassi dell’estate del 1995 era superiore a Sampras.}  (5) {/tip}, condensò in un episodio, mai spinto alla minaccia di sciopero, la frustrazione di generazioni di campioni, piegati a giocarsi il sabato notte una semifinale, iniziata magari tardissimo per colpa dei due match precedenti e magari finita tardissimo dopo quattro o cinque set, e la finale nel dì di festa. Fu così che la summer of revenge, l'estate della vendetta ispirata ad Agassi da una conferenza stampa di Becker a Wimbledon, nella quale BB lo aveva pesantemente offeso, venne ammazzata sul centrale amico di Flushing Meadows, immolata sull'altare dell'audience. Dopo 26 vittorie consecutive tra Washington DC, Montreal, Cincinnati e New Haven, il Kid si era fatto oggettivamente imbattibile. Pur storicamente inferiore al miglior Sampras, aveva semplicemente deciso, da quel maledetto giorno a Wimbledon, che non avrebbe più perso, almeno non fino a che la sua rabbia non si fosse placata. Giocava e colpiva torvo, ancora più anticipato e letale; rispondeva coi piedi sulla riga di fondo puntando la palla col ghigno del killer prezzolato, risoluto a portare in fondo il lavoro: solo vittorie, per sempre. Molto americano, come l'operazione Vendetta Infinita contro Bin Laden, poi rinominata per un riconosciuto eccesso lessicale.

Per tutto luglio e agosto del 1995 l'operazione funzionò alla grande:

Andre tritò chiunque, pure King Pete nella finale dell'Open del Canada.

Allo US Open, era il favorito. Gli ricapitò Becker in semifinale, lo (ab)battè in quattro set di livello tecnico commovente. «Pete, se mi stai guardando: occhio, che arrivo!», urlò Andre nel gelato della Cbs dopo il match point. Pete lo stava guardando, sì, ma dall'albergo: la sua partita era iniziata nove ore prima. In mezzo, la finale delle donne, un emozionante ritorno al grande tennis di Monica Seles dopo l'accoltellamento del 1993. Lei e Steffi Graf lottarono per due ore, mentre Sampras si faceva massaggiare e servire la merenda e Agassi si consumava nell'attesa. «Ho un sacco di tempo per riposarmi», chiosò AA quando era già ora di andare a letto. Non era vero. Si addormentò intorno alle due. L'entusiasmo per le 26 vittorie e l'adrenalina non sopperirono al calo di energie. Si fece sfuggire quella finale che consacrò lo scambio degli anni Novanta {tip È il set point del primo set (http://youtu.be/_U7lMcKJiK8, al minuto 1:10) } (6) {/tip}, e la magia della rivalsa morì sul quel rettangolo di cemento appiccicoso per il caldo, in un match giocato a condizioni visibilmente impari.

Per Agassi fu una ferita mai guarita: ricordando l'episodio, nell'inverno del 2013, durante la sua visita in Italia, in una curiosa traslazione di responsabilità mi parlò del signor Sampras come di «quel figlio di». Eppure la colpa era della CBS, mica di Pete. E di quella fortuna sfacciata del 1984: al primo tentativo di concentrare quel troppo tennis in un'unica, immensa mangiata per gli appassionati e per la tivù commerciale, il caso donò alla storia dello sport tre partite da urlo.

La prima semifinale maschile del 1984 iniziò alle 11 e sette minuti del mattino, subito dopo una sfiziosa esibizione di entrata tra Stan Smith e John Newcombe, che nel 1984 avevano una quarantina d'anni e giocavano ancora da dio. Pat Cash, australiano di 19 anni, forzuto, bello, dannato e con due volèe secche come spari, sprecò un match point sul 6-5 al quinto contro Ivan Lendl e perse al tie-break decisivo. Macché sprecò:

Lendl lo scavalcò con un lob di diritto in corsa favoloso, sulla palla che valeva la finale {tip http://youtu.be/lX7SbR7jKrE, al minuto 6:30. A Cash venne rubato un ace, poco più tardi, sulla parità, al minuto 7.30.} (7) {/tip}. Cash ci mise tre anni, prima di riprendersi da quello shock, altrimenti avrebbe vinto molto più di quel Wimbledon solitario del 1987. Esaurita la più feroce delle battaglie ammesse dal punteggio, si giocarono il titolo femminile l'alfa e l'omega del tennis, Evert e Navratilova, fondocampo e volèe, mancina e destra, americana ed ex Patto di Varsavia. Tre set di tennis eccellente, che per i tempi era una rarità, parlando di donne.

La gente era già esausta da Lendl e Cash, ma pareva un banchetto di Trimalcione: più mangi e ti riempi, più te ne portano e ti ingozzi. Il popolo del tennis ebbe una dose finale di sballo in vena: John McEnroe contro Jimmy Connors. A New York, figurarsi: come mettere in gara Frank Sinatra ed Elvis Presley a Broadway, a chiusura di una Woodstock del tennis con tre concerti di Beatles, Stones e Pink Floyd, uno in fila all'altro. McGenius, in quell'estate di Olimpiadi californiane, era al suo apice:

leggero come Nureyev, toccava la palla con una confidenza mai vista in cent'anni di tennis. Connors, 32enne da pochi giorni, spaccava ancora la legna con la sua T2000 di metallo, e il rovescio procurava danni in quantità. Finì al quinto, e dove sennò. Erano le 23 e 16 minuti. A mezzanotte già si acclamava l'otto settembre come il nuovo Tennis Day.

Del Super Saturday si è contestata a lungo, e inutilmente, la incostituzionalità. Nel caso in cui il secondo semifinalista si fosse trovato costretto a giocare fino a notte fonda per sfidare, la domenica, il primo, magari uscito indenne da tre set giocati all'ora di pranzo, l'ingiustizia sarebbe stata palese. E lo fu, talora: Greg Rusedski, nel 1997, forse avrebbe ceduto il passo a Rafter anche da riposato, senza le ore spese per spezzare Jonas Bjorkman 7-5 al quinto.

Forse. Certamente, il McEnroe della finale del 1985 aveva in circolo tossine della notte precedente, i cinque set contro Wilander, sicché Lendl ne approfittò per agguantare il primo dei tre US Open consecutivi (nel 1986, l'outsider Miloslav Mecir vide affievolirsi le già sparute chance di vittoria dalla programmazione del Super Saturday: a pranzo, Ivan aveva piegato le resistenze di Edberg in tre set; a cena, iniziò il primo dei cinque set tra Mecir e Becker).

Per tacere, poi, dei Super Saturday noiosi, scarsi, in cui la gente avrebbe voluto i grandi e invece toccò sorbirsi Pioline-Masur, o Karel Novacek, o Darren Cahill. Per difendere la sua scelta, insieme all'ovvio argomento che i giocatori del Grande Sabato non si potevano scegliere (Cbs l'avrebbe fatto volentieri), ATP e Cbs fornivano ogni anno statistiche tendenti a dimostrare che i vincitori dello US Open erano stati più spesso i secondi, che non i primi semifinalisti del sabato.

Come dire: anche se ci si riposa poco, la competizione non è falsata.

Del resto capitò già nella prima edizione: il giocatore con meno ore di sonno e recupero a disposizione, McEnroe, la domenica spazzò via ugualmente il riposato, Lendl. Ma quell'anno, sul cemento, John avrebbe battuto Ivan anche di ritorno da una nottata alcolica allo Studio 54. Lo stesso Sampras, nel 1990, aveva faticato fino a tarda sera contro McEnroe, eppure il rilassato Agassi di quella domenica di settembre, certo di vincere il suo primo Slam col suo punk tennis tutto corri&tira, era finito stordito e infilzato dal gioco piatto, classico e devastante di Sweet Pete. Ma i numeri dicono e tacciono: se sei più forte, ti è possibile vincere uno Slam anche in condizioni di svantaggio. Tensione, giornate storte, incompatibilità tecniche si sommano alla freschezza nel distribuire le possibilità di vittoria.

Rimane che quel Super Saturday era stata un'invenzione puramente folkloristica, in barba al dogma di offrire agli attori le migliori condizioni per una performance perfetta: mai come a New York i protagonisti dello spettacolo hanno obbedito, per un trentennio, ai dettami della legge della pubblicità.

Finché, a risistemare il ritmo naturale degli eventi, ha finito per pensarci il buco dell'ozono, o la sfortuna, o ciò che fu. Non si è più riusciti a terminare uno Slam a New York entro la domenica per cinque anni consecutivi, fino al 2012. Piogge da monsoni, trombe d'aria, acquazzoni e venti triestini hanno incoraggiato il sindacato dei tennisti a chiedere una revisione del piano di gioco dello US Open, accolto dalla direzione del torneo e accettato, pur con tentativi di resistenza, da Cbs.

Col nuovo millennio, l'unica concessione era stata elargita alle signore del tennis, che si erano garantite una prima serata di sabato, con ascolti di lusso (nel 2001 la prima finale femminile fissata in prime time fu la sfida tra Venus e Serena, seguita in patria da più di venti milioni di appassionati). Perché, ci crediate o no, fino all'anno 2000 le donne erano costrette ad attendere il termine della prima semifinale degli uomini per giocare, a seguire, il loro incontro.

Una follia: la finale dello US Open femminile poteva iniziare in qualunque momento, dall'ora di pranzo in là, a seconda di ciò che capitava nel match maschile. Dallo scorso anno, il sabato della seconda settimana è dedicato agli uomini.

Senza partita serale, a meno di imprevisti. La domenica, a mezzogiorno, si gioca la finale femminile. Gli uomini tornano in campo il lunedì, alle cinque. Certo, fare audience di lunedì pomeriggio è impossibile. Ma lo US Open rimane l'unico dei quattro Slam a cincischiare nei primi giorni del torneo, impiegando tre giorni per finire i primi turni.

Non hanno mai voluto piegarsi alle sane abitudini del resto del mondo, il sabato consacrato alla finale rosa e la domenica a quella azzurra, perché più ancora dello sport conta ciò che lo sport dà in contributo alla causa dello show. E la dismissione del Grande Sabato ha lasciato, in eredità, un nuovissimo Loffio Lunedì.

Il Louis Armstrong Stadium: inaugurato nel 1978, è rimasto il campo principale dell'Open degli Stati Uniti fino al 1996. L'anno dopo sarebbe arrivato l'Arthur Ashe Stadium.