E’ stata la prima Diva del tennis mondiale, ammirata da reali e attori, adorata dal pubblico. Nella sua Parigi, siamo andati alla scoperta dei luoghi che l’hanno vista nascere, divenire idolo delle folle e che tuttora la ospitano

«Venite, è qua»

Il cimitero di Saint Ouen è inondato di sole, glassato di un caldo inquietante per un maggio parigino, che ti si incolla alla camicia e ai pensieri. All’ingresso, una delle custodi ci ha consegnato distrattamente una mappa del cimitero, indicandoci la direzione verso i campi più vecchi, e un indirizzo definitivo: Avenue Transversale, 6e division.

Per trovarla ci siamo messi in tre, scrutando impazienti fra angeli di marmo e croci cadute, come in un western di Sergio Leone. Alla fine eccola: una tomba semplice, decorata da una piccola scultura in stile art nouveau abbandonata a se stessa, un ramo di palma spaccato in due da chissà quale temporale, chissà quanto tempo fa.

«Be’», dice Massimo Grilli, che ha avuto l’idea del pellegrinaggio, fissando la vite arrugginita che spunta malinconica dal marmo. «Avrebbero potuto almeno ripararlo…». Claudio Giua si asciuga il sudore e si curva per leggere i nomi scolpiti su un lato. «E’ la tomba di famiglia, c’è anche il padre Charles». Le date che ci interessano: «24 mai 1899 – 4 juillet 1938». Davanti, tracciato con un inconfondibile corsivo, il suo nome: Suzanne Lenglen.

La Divina del tennis, morta giusto 85 anni fa, la prima donna atleta davvero capace di smuovere le masse, fare attendere i reali e giocare con i divi di Hollywood, riposa in questa periferia sgarrupata e grigia. Non ci sono fiori vicino alla tomba, nessun segno che testimoni una visita, un pensiero. (Al Père Lachaise, invece, per Jim Morrison, trovi un bric a brac in continuo aggiornamento di bottiglie di whisky, copertine di vinili, fotografie…).

Eppure, se Wimbledon cent’anni fa decise di costruire un nuovo centrale, se oggi al Bois De Boulogne esiste il colossale e scicchissimo Philippe Chatrier, il merito è di Suzanne, a cui è intitolato dal 1994 il secondo centrale del Roland Garros, uno dei campi più belli del mondo, un boudoir ampio eppure intimo, adatto a incontri seducenti, nonostante la sovrastruttura del tetto che da un anno opprime un po’ l’onda dolce delle tribune laterali. Quando Suzanne giocava, a Cannes o a Parigi, a Londra o New York, in migliaia restavano fuori dalle tribune, smaniosi di ammirarla appena per qualche game; e chi riusciva a conquistare un biglietto era disposto a pagarlo anche l’equivalente di 750 euro di oggi.

Una magia che oggi si è spenta

Penso a Gianni Clerici, ci ha lasciato giusto un anno fa, che le ha dedicato una biografia bellissima, agile come un romanzo e documentata come una tesi di dottorato. E penso al tennis femminile di oggi: muscolare, atletico, pieno di ottime professioniste ma vuoto di grandi personalità. Incapace di smuovere l’immaginario, di incantare e catturare l’attenzione, ora che Serena Williams ha smesso e Ashleigh Barty ha riposto nella custodia la sua racchetta magica.

Certo: Coco Gauff a 19 anni negli Usa è una piccola star, può contare su contratti che Suzanne nemmeno si sognava; e infatti dovette inventarsi anche il professionismo, per cominciare a incassare qualche assegno adeguato al suo genio; e Iga Swiatek sicuramente è una numero 1 solida, preparata, sufficientemente continua. Aryna Sabalenka picchia quasi quanto i suoi colleghi maschi, Beatriz Haddad Maia ha il merito di aver riconsegnato il Brasile alla storia del Roland Garros decenni dopo Maria Bueno e Guga Kuerten. Nessuna di loro, però, sa riempire gli stadi e accendere la fantasia come riusciva alle Williams, e prima di loro a Steffi Graf, Chris Evert, Martina Navratilova o Billie Jean King.

Una linea si è interrotta, un discorso si è spezzato proprio come il ramo di palma sulla tomba della Lenglen. Forse è colpa di un tennis tanto, troppo fisico; forse del disincanto che avvolge lo sport business, dove tutto è corporate, social, patinato ma distante dal cuore. Che ricomincia a battere solo se all’improvviso, fra la folla appare in fuseau e felpa scura Gabriela Sabatini, reduce da un match delle Leggende e luminosa come sempre, capace di accendere una giornata con un sorriso bruno dei suoi. Le Dive si fanno riconoscere così. Ne percepisci la presenza, il carisma, l’aura, anche se si limitano a camminare dal campo agli spogliatoi senza dire una parola.

Così nasceva un Mito

Le altre lottavano contro il Tempo, lei lo dominava danzando. Dritti e rovesci tirati in sospensione, smash piroettati, la palla che planava in un angolo lontano del palcoscenico e oplà! Suzanne atterrava in un fruscio di tulle e di seta, la bandana calcata sulla massa corvina dei capelli e le calze candide che occhieggiavano scandalose da sotto gonne troppo corte. Mai stata bella, intendiamoci. Il nasone aggettante, gli occhioni pesanti e cerchiati, la bocca sgraziata e il mento a punta. Una modella, no. Una Diva sì. Sin dall’inizio.

Sin dal suo primo arrivo a Wimbledon, nel 1919 preceduta da una fama che anche senza i bisogni dei social aveva contagiato il Continente e superato la Manica. Per ammirarla si scomodarono persino Giorgio V e la regina Mary, appassionati avidi. Nel Challenge Round, «Suzàane», come la chiamavano gli inglesi stiracchiando le vocali, non deluse le attese. Con la immancabile fiaschetta di cognac consegnatale da papà Charles tenne a bada i nervi e i quarant’anni voluminosi di Dorothea Labert Chambers, regalando al Centre Court originale, quello di Worple Road, una partita memorabile. Tre set feroci, 10-8 4-6 9-7, gli sganassoni di Dorothea, già quattro volte campionessa, contro i balzi di Suzanne, il suo genio tattico in espadrillas.

Si era chiusa un’epoca, e presto anche l’All England Club avrebbe traslocato. Se ne era aperta un’altra, intitolata alla ventenne cresciuta in Costa Azzurra da papà Charles, proprietario di una linea di omnibus a Parigi ma allenatore per vocazione e testardaggine. A quindici anni la cucciola Lenglen era già una campionessa e palleggiava con Anthony Wilding; poco dopo si trasformò nella musa dei Moschettieri – Lacoste, Cochet, Borotra e Brugnon – e in una stella del jet set. Giocava con Gustavo di Svezia e Manuel del Portogallo, frequentava divi dello schermo come Mary Pickford e Douglas Fairbanks, o vippissimi di allora come Lord Rocksavage e il marajà di Kapurtala.

La Diva era destinata a vincere sempre, tranne il famoso match abbandonato in preda alla tosse con Molla Mallory ai campionati degli Stati Uniti del 1921, e a incappare in uno degli incidenti più disgraziati della storia del tennis, quando, senza colpa, malandata di salute come le capitava spesso, fece aspettare più di un’ora la Regina Mary prima di scendere in campo. Poi il passaggio al professionismo, gli anni del ritiro e della grande passione per l’insegnamento. Al Roland Garros aveva due campi riservati e centinaia di ragazzini accorrevano a metà anni ’30 per ricevere insegnamenti insieme pratici e sublimi; poco distante, al Tennis Mirabeau – oggi non ne resta più niente – sorgeva la Scuola Suzanne Lenglen.

La malattia, una leucemia fulminante, se la portò via il cinque luglio del 1938. Non era più lei. «Le braccia sottili come grissini, il volto una maschera», racconta Simon Giordano, citato da Gianni Clerici che riporta anche l’agitazione dei giornalisti il giorno della morte: «Jean Augustin telefonava continuamente al Ministero, indignato che nessuno giungesse per decorare la poverina con la Legion d’Onore».

La corte del «miracolo»

Di Suzanne, oggi, non pare importare molto neanche nell’hameau, la piccola corte nel 16e arrondissement dove è nata nel 1899. L’indirizzo esatto è 45 Rue de Ranelagh, all’incrocio con rue de Boulanvillier. Io e Claudio, orfani di Massimo che è già rientrato in Italia, ci arriviamo in una mattinata di fine Roland Garros, una fermata di metro sulla ‘9’, da Molitor a Ranelagh, più una passeggiatina di cinque minuti, fra ambasciate e negozietti, in lontananza la mole tondeggiante di Radio France. Un tempo era una strada di giardini, poi è stata la culla di Edith Piaf. Stephane Mallarmé, il poeta dei versi cesellati come volée della Divina, ci ha abitato dal 1844 in poi, proprio al 45, nell’hameau Boulanvilliers.

E’ una strada privata, non si può entrare; sulla targa d’epoca accanto al cancello però non si fa cenno a nessuno degli illustri ospiti. Una giovane signora fa per entrare e allora proviamo a chiederle se sa niente di Suzanne, se c’è un ricordo all’interno. Fa cenno di no, quasi preoccupata, un po’ allarmata, nonostante la nostra aria distinta e più che pacifica, sottolineata dal badge del Roland Garros al collo.

Quando, un po’ delusi, stiamo per andarcene, però torna sui suoi passi e ci rivolge più cordialmente la parola: «Ho controllato, è nata proprio qui… E voi che siete giornalisti, dovreste parlarne: per farla ricordare e per valorizzare questo luogo». Facciamo cenno di sì, senza aver ben capito se a muoverla è un interesse nobile, storico, documentaristico; o magari solo un calcolo sul possibile aumento delle locazioni.

Sembra che Parigi se la sia dimenticata, Suzanne: almeno un po’. «Be’, ma c’è il suo stadio al Roland Garros, no? – mi dice più tardi Julian Reboullet, ottimo e giovane caporedattore de L’Equipe, quasi a scusare i parigini. Certo, c’è lo stadio. Ripenso alle immagini che ho visto del funerale imponente della Lenglen, il corteo che l’ha accompagnata da Square Jean Paul Laurens, il suo penultimo domicilio, alla Chiesa Dell’Assomption, fino al cimitero di Saint Ouen, dove siamo andati a salutarla qualche giorno prima. Non ha avuto la fortuna di trasformarsi in un logo, in una griffe, Suzanne. E il mondo dimentica in fretta.

A Gianni, Suzanne e al tennis

Ecco, a Saint Ouen, poco distante dal cimitero – ce ne sono due: non confondetevi come abbiamo fatto noi tre con quello vicino al municipio… – la domenica e il lunedì apre un mercato delle pulci, uno dei più famosi di Parigi. Ci si trovano vecchi ‘pin’ del Roland Garros (25 euro, un filo cari), racchette di legno, maglioni con le trecce e lo scollo a «V» appartenuti chissà a chi. Il manifesto originale del torneo del 1981, quello famoso con l’immagine stilizzata dei capelli di Borg e della bandana, nel caso vi interessi, lo portate via per 1800 euro. Trattabili.

Appena fuori dal marché, fra i banchetti ingombri di maglie tarocche di Messi e riproduzioni lampeggianti della Tour Eiffel, si apparecchiano i tavolini della Brasserie Biron, una di quelle che piacerebbero a Maigret: sedie robuste, vecchie foto appese alle pareti, un cane sdraiato all’ombra davanti alla cassa. Il patron serve un ottimo bianco, fresco il giusto per innaffiare tartare de bœuf e tarte de pomme fatte in casa. I bicchieri sono di vetro grezzo, da osteria. Ma vanno bene lo stesso per un brindisi a Suzanne, a Gianni e al tennis che, nonostante la memoria corta del mondo e la poesia che pian piano svanisce, continuiamo ad amare come fosse il primo giorno. A bientôt, Divina.