Teenager, greco, col rovescio a una mano. Volendolo soffocare in un’unica definizione, Stefanos Tsitsipas è un ragazzo semplicemente improbabile. Se Sascha Zverev ha l’aspetto di un angelo spietato avvolto dall’aura di chi deve essere il migliore a tutti i costi, Stefanos è l’altra faccia della medaglia: centonovantatre centimetri che terminano con un folto sciame di boccoli biondo cenere, occhi nocciola, lineamenti duri ma sguardo dolce, e una normalità che stride piacevolmente con ciò che è, ciò che fa e ciò che probabilmente sarà. Ha 19 anni e nell’ultimo semestre ha girato forte la manopola del gas, tanto che in rapida successione ha piazzato importanti check-point sulla sua strada: prima vittoria contro un top ten, prima finale ATP, best ranking fissato entro il numero 40. Considerando i soli risultati dell’anno, può a ben ragione considerarsi tra i venti più forti giocatori del mondo e il secondo dell’allegra combriccola dei Next Gen, naturalmente alle spalle di Sascha. Oltre ai numeri, che rappresentano la sostanza di un giocatore, è la forma di Tsitsipas a rapire il pubblico che lo cerca, lo aspetta e lo ammira. Questo ragazzotto greco è differente dal resto della ciurma e, come tutti i diversi, attrae senza per forza dividere: al Foro Italico hanno già imparato a masticare il suo nome, così buffo che non puoi dimenticarlo, e apprezzare il suo tennis con quel rovescio a una mano che dalle nostre parti rappresenta un plus romantico, specie se a giocarlo è un teenager. Nel player’s restaurant del Foro Italico – un parallelepipedo di marmo che contiene uno stanzone enorme con moquette scura, divanetti rossi e un viavai massiccio e caotico di coach, giocatori, accompagnatori, amici e fidanzate – Stefanos si avvicina mentre sta ancora divorando un cremino, aiutandosi con le mani dove finisce la carta. È gentile, pacato, forse un po’ hippie, e guarda fisso negli occhi l’interlocutore, non esattamente la specialità della casa per un tennista. Come molti suoi colleghi, anche Tsitsi ha respirato tennis ancor prima di cominciare a camminare: ha iniziato ufficialmente a tre anni in un resort greco dove mamma e papà davano lezioni. In casa sono in sei e il tennis è molto più di un fil rouge che li stringe tutti: uno tennista lo è, una lo è stata e pure con discreti risultati, un altro lo è quasi, gli altri due vogliono diventarlo, e uno li allena tutti. Il padre, Apostolos, è anche il coach di Stefanos, oltre che la sua ombra, tanto che il figlio dirà «fatico a ricordare un giorno in cui io e mio padre non ci siamo visti». Apostolos è un istruttore di educazione fisica prestato al tennis, mentre la mamma è la russa Julia Salnikov con un passato da numero uno tra le tenniste dell’URSS negli anni Ottanta. Il nonno paterno, Sergej Salnikov, è stato addirittura capitano della nazionale di calcio dell’Unione Sovietica. Un leitmotiv talmente ricorrente, questo della famiglia di sportivi, da diventare quasi una condicio sine qua non per costruire un campione, come ha dimostrato lo scrittore Malcolm Gladwell nel suo celebre Fuoriclasse. Storia naturale del successo, i cui concetti sono stati poi approfonditi nel mondo del tennis dal nostro Federico Ferrero in un’inchiesta dove si evidenziava come avere un parente molto vicino implicato nel mondo dello sport fosse una condizione necessaria per diventare campioni. Stefanos compirà vent’anni il 12 agosto: è nato esattamente ventisette anni dopo Pete Sampras, che in realtà si chiama Petros – come il fratello di Stefanos – e ha chiare origini greche. Così come Mark Philippoussis o – per navigare a vista – la coppia formata da Nick Kyrgios e Thanasi Kokkinakis, tutti australiani. Questi campioni, o presunti tali, hanno optato per bandiere diverse, Stefanos no.
In un’intervista rilasciata a Rotterdam nel 2017, hai detto che probabilmente avresti perso quasi tutte le partite nei primi tornei sul circuito maggiore. Invece, in poco più di un anno sei già nei primi 50: il grande salto è stato più facile di quanto ti aspettassi?
Il vero salto è stato mostrare a me stesso di essere in grado di passare le qualificazioni nei tornei ATP, ma non solo. Ad esempio, per me è stata importantissima la vittoria nel Challenger di Genova (settembre 2017, n.d.r.) perché mi ha dato un’enorme consapevolezza dei miei mezzi. Ho perso molte partite perché ero meno esperto, altre perché giocavo con gente più forte ma entrambe le situazioni mi sono servite per imparare a conoscere i miei avversari e i miei limiti. Sono molto soddisfatto della transizione tra il 2017 e quest’anno: ho vinto molte partite, ma ora ho bisogno di rimanere affamato, concentrato e motivato. Devo cercare di dare più di quanto mi aspetti da me stesso.
A inizio anni, al torneo di Doha, hai detto di avere tre obiettivi per il 2018: entrare nella top 50 mondiale, qualificarti per le Next Gen ATP Finals e raggiungere la seconda settimana in uno Slam. Un obiettivo è già in tasca, un altro è poco più di una formalità, mentre per quanto riguarda gli Slam dove pensi di poter avere maggiori chance?
In tutti! Gioco bene su qualsiasi superficie, quindi già dal prossimo posso togliermi delle soddisfazioni. Sento di non essere ancora un giocatore completo, ma sono sicuro che la seconda settimana in uno Slam arriverà molto presto (Stefanos è stato di parola: poche settimane dopo ha raggiunto gli ottavi a Wimbledon, ndr)
Avevi detto anche di preferire l’erba alle altre superfici, quindi ti sta sorprendendo in positivo quanto stai facendo sulla terra?
Sì, mi sono stupito. Ho giocato benissimo a Monte-Carlo perdendo contro Goffin, ma dopo aver passato le qualificazioni e aver battuto Shapovalov al primo turno. In quel torneo ho avuto un clic in testa, mi sono sentito davvero bene e mi sono detto: ‘Wow, servo bene, rispondo bene, ho sensazioni positive. Ci sono tantissimi tornei sulla terra e punti a disposizione, perché non provarci?’. Ora non ho paura di niente.
Com’è il rapporto con tuo padre? Quanto è difficile scindere il ruolo di allievo e figlio? Pensi che in futuro avrai bisogno di un altro allenatore per sostituire o quantomeno affiancare tuo padre?
Il rapporto è ottimo, anche se ovviamente non è sempre facile trovare il giusto equilibrio. Però è fondamentale andare d’accordo perché in passato troppo spesso i padri/allenatori sono stati la rovina dei figli/giocatori. Noi capiamo perfettamente i bisogni e le esigenze l’uno dell’altro. Mio padre è un ottimo coach e diventerà sempre più bravo, ed è con lui al mio fianco che voglio raggiungere traguardi importanti. Molti mi dicono che farei meglio a farmi seguire da un allenatore con maggior esperienza a certi livelli, ma io non sono per niente d’accordo. Appoggiandomi all’Accademia di Patrick Mouratoglou ogni tanto capita di confrontarsi con altri coach di alto livello, ma quello è più un extra. Ognuno esprime la propria opinione, io e mio padre ascoltiamo tutti, ma alla fine andiamo avanti noi due. Sono soddisfatto così.
Quanto aiuta essere cresciuto in una famiglia di sportivi?
Molto perché il tennis è la cosa più importante della mia vita sin da quando sono nato. Entrambi i miei genitori sono allenatori e sono cresciuto gironzolando per i campi, giocando sempre a tennis. Non mi hanno aiutato soltanto con la tecnica, ma insegnato anche come si lavora per diventare un vero professionista, come si viaggia e si vive il circuito.7
Anche i tuoi fratelli giocano a tennis?
Petros, Pavlos ed Elisavet giocano tutti a tennis e anche piuttosto bene. Abbiamo iniziato nello stesso tennis club e vorrebbero ricalcare quanto sto facendo io. Petros ha qualche punto ATP e ha giocato per la Grecia in Coppa Davis: insieme speriamo di fare grandi cose per il nostro Paese.
Com’è il rapporto con la Grecia? Sono più gli oneri o gli onori di essere il più forte tennista della storia greca?
C’era Konstantinos Economidis (che però non è mai entrato nei primi cento giocatori del mondo n.d.r.) che mi ha aiutato molto al principio. Sono molto patriottico, come voi italiani. Lo dimostra anche solo quanto siamo vicini alla Nazionale di calcio! Conosco le responsabilità che ho nei confronti del mio Paese ed è una cosa che mi piace. Uno dei miei obiettivi è quello di diventare l’ambasciatore del tennis per la Grecia ed è bello vedere come molti ragazzi si stiano avvicinando al tennis grazie a me e a Maria (Sakkari, top 50 WTA n.d.r.).
Com’è la tua vita lontano dai campi da tennis?
Sono appassionato di fotografia e video, passioni che prendo molto seriamente. Sono una parte importante della mia vita. Tanto per capirci, non sono uno di quelli che scatta una foto con l’iPhone, la posta su Instagram e si crede fotografo. Ho una macchina fotografica professionale e passo ore a editare le foto, per poi venderle su EyeEm (una piattaforma che conta più di 10 milioni di utenti dove si possono condividere ma anche vendere foto, n.d.r.) dove ho la possibilità di confrontarmi con altri fotografi. La vita non è solo tennis, che resta il mio lavoro e ciò che farò nei prossimi anni, ma a volte ho bisogno di staccare e dedicarmi ad altro.
C’è qualcosa che odi nella vita del tennista?
Mi manca essere a casa, i miei amici, la Grecia. Probabilmente quest’anno sarò il giocatore che parteciperà a più tornei ed è complicato perché sei sempre in viaggio e vivi con la valigia in mano. In più non tutte le città sono come Roma. C’è anche un altro lato che in pochi vedono, posti scomodi, luoghi brutti in cui dopo essere arrivato vorresti subito ripartire. Da Roma, invece, non ripartirei mai. Ma sono tutte cose che sapevo già: ho scelto il tennis e tutto quello che è incluso nel pacchetto.
Nel quale però, immagino non pensavi fosse compreso anche il rischio di morire affogato.
Giocavo un Futures a Heraklion, in Grecia e, insieme a un paio di amici, decisi di andarmi a fare una bella nuotata, senza accorgermi che le condizioni del mare erano piuttosto agitate. In breve mi ritrovai a venticinque metri dalla riva, in balìa delle acque e stavo pian piano annegando. Per l’unica volta nella mia vita, ho pensato che sarei potuto morire. Mio padre si tuffò per salvarmi e cominciò a riportarmi più vicino alla riva. Dopo qualche minuto di vera lotta con il mare, trovammo una roccia dove aggrapparci e riprendere fiato. Riuscimmo a tornare fin sulla spiaggia ma capimmo quanto eravamo stati vicini alla morte. Questo ha cambiato totalmente il mio modo di pensare, anche in campo: non ho paura di niente e mi godo il momento.