Roman Burruchaga è il figlio di Jorge Luis, autore del gol decisivo nella finale di Messico '86. Tennista molto promettente, a differenza del padre non rischia di vivere nell'ombra di Maradona.

Di Riccardo Bisti – 29 dicembre 2014

 

Quel giorno, i tedeschi avevano studiato una marcatura asfissiante. Diego Armando Maradona sapeva che non avrebbe potuto risolvere la finale di Messico '86 con una giocata delle sue. O meglio, sapeva che non avrebbe potuto fare il fenomeno come contro l'Inghilterra o nella semifinale contro il Belgio. Quando la Germania rimontò da 0-2 a 2-2, rischiò di vedersi scivolare il Mundial come acqua tra le dita. Non avrebbe segnato, era pacifico. Ma sapeva che avrebbe potuto mandare in gol qualcun altro. La fortuna toccò a Jorge Luis Burruchaga. Attorniato da quattro tedeschi, Maradona servì il numero 7 che si involò verso la porta di Schumacher e lo battè con un tocco da biliardo. L'Argentina era campione del mondo. Lo era grazie al “Diez”, ma anche a un ragazzo che aveva avuto una sfortuna tremenda: 11 fratelli e la morte del padre quando era ancora un bambino. Spesso i Burruchaga non avevano da mangiare, ma lui aveva dentro di sé una dote innata: la dignità. E pazienza se, tra una partita e l'altra, vendeva gelati o faceva il muratore. La carriera da calciatore lo ha premiato, dandogli stabilità economica e una vita tranquilla. La sua famiglia oggi è felice: la moglie Fabiola gli ha dato quattro figli ed ecco, puntuale, l'incrocio con il tennis. Il più piccolo di loro, Roman, è una grande promessa del tennis argentino. E' tra i migliori nella sua categoria d'età (under 12) e ha fatto parte del team che in Bolivia è arrivato terzo ai campionati sudamericani di categoria. Il piccolo Roman ha il tennis nel sangue: non poteva essere altrimenti se scegli la racchetta dopo che tuo padre ha segnato il gol decisivo in un mondiale di calcio. Difficilmente il figlio di Fabio Grosso giocherà a tennis, così come quello di Mario Gotze. Invece, dopo averci provato con la scuola calcio del mitico River Plate, il piccolo Roman Burruchaga ha scelto il tennis. Il talento c'era sin da piccolo, quando dava spettacolo con il ping-pong. Durante le festicciole di compleanno, batteva tutti nelle partitelle nel garage di casa. Il destino ha voluto che accanto all'Estadio Monumental (la casa del River Plate) ci fosse il Tiro Federal, piccolo club tennistico. A otto anni, ha smesso di giocare a calcio a 11, dedicandosi a tennis e calcetto. L'anno scorso, invece, ha abbandonato del tutto il pallone. Perchè? “Facile. Mi piace più del calcio. Adoro vedere Federer, ma anche Djokovic. Mi piacerebbe imitare il suo rovescio a due mani, possiede un'elasticità incredibile”.


TROPPI RITIRI PRECOCI

In casa Burruchaga, il tennis non era così sconosciuto. Papà Jorge seguiva la boxe e il ciclismo, ma durante il periodo in Francia (ha giocato nel Nantes) ha scoperto il tennis. In fondo è pur sempre il paese del Roland Garros. Prese qualche lezione e, quando si ruppe il ginocchio, il tennis fu parte importante del suo processo di recupero. “Ok, però non avrei mai immaginato di avere un figlio tennista” ha raccontato al quotidiano La Naciòn, che ha scovato questa storia. Intendiamoci: il piccolo Roman ha ancora molta strada da fare. Si può dire che non abbia nemmeno iniziato. Ma la suggestione è grande. E il padre ha un sogno: entrare al Roland Garros grazie a Roman. Negli anni francesi, non ha mai assistito allo Slam francese. Al massimo, ha seguito un'esibizione di Yannick Noah. “Il tennis è uno sport individuale, molto diverso dal calcio – dice Burruchaga senior – dove vinci e perdi in solitudine, al di là di quello che può dirti un allenatore. Un punto in comune con il calcio è che si attendono grandi risultati sin da giovani. Ma nel tennis mi ha colpito il grande numero di ragazzi che si ritirano. Si chiede troppo e i ragazzi si bruciano precocemente”.

LA SCUOLA NON SI TOCCA
Aver giocato ad alti livelli può essere un vantaggio per lui, che conosce certe dinamiche e non si fa prendere dal fanatismo. Ad esempio, non fa perdere ore di scuola al figlio per giocare questo o quel torneo. Ciò che conta è crescere, finire gli studi. Roman terminerà la scuola primaria (l'equivalente delle nostre medie), poi proverà con la secondaria. “Nulla ci garantisce che un eventuale rinuncia alla scuola lo faccia diventare un professionista del tennis”. Di sicuro Roman ci mette entusiasmo e passione. Non si limita a giocare, ma segue con interesse anche i campioni. E lo fa con gli strumenti di oggi, internet e social network. Ma se il padre sogna di vederlo a Roland Garros, lui confida che la sua superficie preferita è il cemento e che vorrebbe giocare lo Us Open. Lo stesso sogno che una decina d'anni fa aveva un certo Juan Martin Del Potro. Un sogno che non deve essere inquinato da fanatismo e ossessione. “Ovviamente è brutto perdere, ma non deve essere la morte – dice il padre – ho visto ragazzini insultarsi tra loro e non mi piace questo livello di follia. Io provo a spiegargli come si deve comportare sono stato chiaro: se lo vedrò comportarsi male o gridare senza senso, lo tirerò fuori dal campo. I bambini sono delle spugne e imitano i professionisti. Purtroppo c'è qualcuno che fa queste cose, ma questo fa parte del processo di crescita”. Se davvero Roman dovesse diventare un campione, potrà gioire solo per sé. La luce riflessa di papà Jorge non sarà un pericolo per lui. Non ci sarà nessun Diego Armando Maradona a oscurarne la gloria.