Federico Ferrero aveva ipotizzato una vittoria Slam per Wawrinka. Al primo tentativo, è già in finale…
Di Federico Ferrero
(Articolo pubblicato sul numero di gennaio di TENNISBEST Magazine – ipad edition)
La mia sfida per il 2014 è uno svizzero in finale Slam. Prima di venire risucchiato nel vortice della Fed-letteratura, però, chiarisco la posizione: non parlo di Roger (non che gli neghi il diritto di farcela) ma di Stan, il gemello diverso, l'altro svizzero, quello senza charme, col fisico da sfide di paese, un lancio del tronco tra energumeni e una nuotata a gennaio nel lago di Losanna. Wawrinka non mi piaceva. Né lui, né quegli insulsi «Allez!» che urlava in faccia sempre e a chiunque, anche se l'avversario aveva perso il punto perché scivolato prima di colpire la più elementare delle volèe a campo aperto [1]. Non che ciò abbia qualche rilevanza, si intende, però non c’è niente da fare, una parte delle nostre proiezioni deriva da un filtro soggettivo, per cui l’antipatico diventa anche meno competitivo nei tornei che ci giochiamo in testa. Ora non è che si sia trasformato in un Garrone del libro Cuore, benché le lacrime dopo quel match contro Tsonga a Roland Garros 2012 potessero intenerire. E pure la testa piegata sul nastro, appena colpito al cuore dal passante di Djokovic sul match point dell’ottavo australiano che ha compiuto un anno in questi giorni, ha contribuito a perdonarlo per un atteggiamento da coniglio mannaro, forte coi deboli e debole coi forti, da cui non è esattamente guarito.
Gilles Simon, prima di devastarsi una caviglia nell’esibizione di Kooyong, ha ragionato su una cosa molto interessante, benché opinabile: il quadrumvirato è finito da mo’, il triumvirato (Nadal, Djokovic, Murray senza Federer) non vincerà più tutto, come è successo pressoché invariabilmente (è spuntato un Del Potro a New York 2009, poi stop) dal 2005 in poi. Quindi, per quelli della sua età, che vanno verso i trent’anni, Simon è dell’84 e Stan dell’85, ci saranno alcune stagioni in cui, finalmente, tentare il colpaccio dopo un periodo di totale inaccessibilità dei tornei più importanti. Credo abbia ragione, benché Nadal sia un 1986, Djokovic e Murray due 1987: probabilmente la competizione si aprirà a qualche pretendente in più, essere ancora lì a provarci per quando si potrà bussare sarà essenziale: è probabile che il tennis torni a essere uno sport davvero Open. Finora, Wawrinka ha disputato una semifinale dello Slam, l’ultimo, a Flushing Meadows. È troppo poco, ed è indicativo. È indicativo, per la ragione appena esposta (un top ten di lungo corso “tappato” da un oligopolio di campioni ingiocabili). È troppo poco, perché un giocatore che esprime il tennis dei cinque set a Melbourne contro Nole, e che maltratta Berdych e Murray a New York a fine stagione per mancare la prima finale in un major, dopo un’altra partita da santificare contro Djokovic in semi [2], deve avere di più. E forse lo avrà, nonostante abbia sempre trovato troppo lungo contro certi big: 0-12 contro Rafa e manco un set portato a casa, sebbene tre degli ultimi quattro siano stati tie-break sanguinolenti; 0-13 contro Federer, che in realtà avrebbe perso un match a Monte Carlo contro Stan nel 2009 ma non può contare per le statistiche: Roger si era appena sposato e ancora metabolizzava i brindisi a Louis Roederer. Quale Slam per il colpaccio? Non Wimbledon, suggerirebbe la storia. Neanche il manto drogato e rallentato dei Championships contemporanei ha mai esaltato le doti di colpitore del Wawrinka più completo e simmetrico che stiamo apprezzando ultimamente, molto meno in affanno e quasi a suo agio col diritto, con un servizio che da 190 km/h si è assestato a quote di 215. Ma chi lo sa: i prati hanno offerto le sponde più impensate, a Safin e pure a Schuettler, per guardare da vicino una finale. US Open, Melbourne e Parigi se la giocano invece con simili possibilità di riuscita, la terra è superficie su cui Stanislas crebbe ma oggi va a finire che si fa preferire sul duro.
Ah, la testa. Fino all’ATP di Chennai di qualche giorno fa, Wawrinka aveva perso il doppio delle finali vinte e collezionato la miseria di quattro tornei (e che tornei: Umago, Casablanca, Chennai, Estoril). Tutto il resto, tanti bei piazzamenti. Quando Magnus Norman, membro della triade Good To Great Academy [3] si è fatto avanti per accompagnarlo nel tour, ha insistito ancor più sulla preparazione fisica: non che a Wawrinka mancasse, con un guru come Pierre Paganini a disposizione, ma l’intensità del lavoro lo ha leggermente asciugato e definito nel muscolo. Sono fatiche tradotte in energie dopo quattro ore di botte contro uno degli oligarchi. Sull’atteggiamento, Norman – che aveva tutto, tranne il talento del grande, eppure diventò il secondo giocatore del mondo – è sicuro: la fiducia si costruisce sulla fiducia: aver iniziato a battere quelli lassù, essersi reso conto di parlare tutto sommato la stessa lingua dei grandi, è la base per iniziare a fare sul serio. Anche a 28 anni, avendone trascorsi dieci all’ombra delle sequoie.
Sì perché il tennis, nel giro di pochi anni, ha rivelato la sua nuova tendenza: uno sport per vecchi, inadatto ai teenager ancora imberbi, dove 30 is the new 20, un trentenne di oggi è il ventenne di ieri. Io dico Stan.
[1] Fece tanto bene, Marat Safin, un giorno di maggio del 2008, a rispondergli "Allez what? Allez whaaaat?" su un campo del Foro Italico, zittendo per qualche secondo la manifestazione più detestabile di antisportività in uno sport concepito dagli angeli, come il nostro.
[2] Ricordate quel set e mezzo di dominio a inizio match, o anche solo il terzo gioco del quinto set, ventuno minuti di gioielli e agonia?
[3] Gli altri due sono Niklas Kulti e Mikael Tillström, con la consulenza di Simon Aspelin: dopo l’abbandono di Grigor Dimitrov, che è andato a lavorare con Roger Rasheed, Wawrinka è la stella dell’accademia di Bromma, pochi chilometri a nord di Stoccolma.