da Trevignano (Tv), Gabriele Riva – Foto Ray Giubilo
(Intervista uscita sul numero di giugno 2012 de "Il Tennis Italiano")
Gli errori gratuiti non sono prerogativa del tennis e non si commettono solo sul campo. Parlando di Gianluigi Quinzi molti fanno lo sbaglio di concentrarsi soltanto su chi o cosa potrà diventare tralasciando – del tutto, o quasi – chi è ora. Oggi è un ragazzo di 16 anni che sta facendo, e bene, tutto il necessario per diventare quello che molti già gli vorrebbero imporre di essere. Un campione. Paga una colpa non sua: la siccità di Top 10 che il nostro Paese sta affrontando, la carestia di fenomeni italici che ha seccato le bocche del nostro movimento e che le fa riempire di acquolina alla vista di un boccone prelibato. Le carte le ha, sia ben chiaro, tutte al posto giusto.
E nessuno tenta nemmeno di nasconderle, né lui, né il suo staff né la famiglia. Anzi, scambiando due chiacchiere con Gianluigi e con i genitori, che hanno trovato l'equilibrio giusto nello stargli accanto senza però pressarlo lungo il suo percorso, la sensazione netta è che oltre a tutto il mazzo ci sia anche un tris d'assi in più nella manica. Mentalità, umiltà e consapevolezza. Un merito, certo, ma non del tutto scontato per chi ancora bambino è stato paragonato a mostri sacri del gioco, dipinto quale salvatore della patria con racchetta e sbattuto senza troppi pensieri sulle pagine dei giornali accanto a titoloni d'effetto. “E' chiaro che da un lato – spiega papà Luca – fa piacere vedere il proprio figlio sotto i riflettori per i suoi meriti, ma allo stesso tempo preoccupa un po' questa quasi ossessione nei suoi confronti”.
Eh sì, perché Gianluigi è un ragazzino che dà l'idea di essere più maturo e più cresciuto rispetto alla carta d'identità, ma pur sempre un ragazzino. “E' capace – suggerisce mamma Carlotta – di andare, subito dopo quest'intervista, a giocare a rincorrersi col fratello Gianluca. Come è giusto che sia per uno della sua età”. Uno che a tavola si esalta parlando di moto e go-kart, che non sa resistere a un pallone da calcio e che parla, con una discreta inflessione marchigiana, di Scudetto alla Juve perché “è meritato, e poi corriamo più di tutti”.
Nelle sue parole c'è proprio questo: chi è Gianluigi. Al di là delle strisce di vittorie consecutive, dei titoli Juniores, del Campionato europeo vinto, del n.5 nel ranking Under 18 a 16 anni. Tutto questo nella sua voce suona marginale, come in quella di uno che sa che si tratta solo di fondamenta sane per una grande costruzione (per chi volesse approfondire risultati e performance Under – decisamente notevoli – è consigliato il n.1012 de Il Tennis Italiano, Febbraio 2011).
Si è parlato molto di te in questi anni. Secondo te si è perfino esagerato in certi casi?
“Molto sinceramente, non sto tanto ad ascoltare quello che dicono di me. Io lascio perdere e vado avanti per la mia strada”.
Quindi non c'è il rischio che tutte queste chiacchiere ti facciano stancare del tennis.
“No, no, assolutamente. Certo, se stessi sempre lì a preoccuparmi di quello che dicono o che scrivono di me allora probabilmente mi scoppierebbe la testa in poco tempo. Ma non c'è questo rischio perché io lascio parlare chi vuole parlare senza starmi a preoccupare troppo. So qual è la mia strada e proseguo sereno su quella. Non uso Facebook, non leggo forum né siti internet. Non mi interessa nemmeno farlo. Quando navigo lo faccio per tenermi informato sulle notizie utili del circuito, guardo il sito dell'Atp, quello dell'Itf. Basta. Meno commenti e più roba utile”.
Grazie della rassicurazione. Il tuo nome ormai lo conoscono in molti. Ma ancora non ti hanno visto giocare. Che giocatore sei?
“Principalmente sono uno che non molla mai. Per vincere contro di me bisogna lottare, cerco sempre di non regalare nulla. Anche da un punto di vista tattico so quello che devo fare, non gioco a vanvera. Per quanto riguarda i colpi direi che ho un buon servizio e un buon diritto, mentre devo lavorare ancora tanto sul rovescio, soprattutto in back, e sulle volée: devo andare un po' più avanti”.
Sempre concentratissimo quindi, mai un'incavolatura?
“Beh, in campo mi arrabbio ogni tanto ma solo quando serve, diciamo. Non sono uno che butta racchette a destra e sinistra anche se ogni tanto qualche brutta parola mi scappa. Succede quando sono un po' più nervoso del normale oppure quando non riesco a muovermi come vorrei. Lo so che anche le parolacce sono da evitare, ci sto lavorando. Comunque prima dei match ascolto sempre attentamente quello che dice il mio allenatore e in campo cerco di fare sempre quello che mi dice”.
Credi che il tennis del futuro sia dei mancini come te?
“Sì, lo dimostra anche Nadal che di natura era destro e invece gioca con la sinistra. Ci sono dei vantaggi a essere mancini, primo fra tutti quello di poter sfruttare gli angoli stretti con il diritto e spostare fuori dal campo gli avversari. Quello fa tanto, ti apre molte soluzioni. Stesso discorso vale per il servizio a uscire che spesso e volentieri ti permette di andare in lungolinea. Molti punti diventano più facili, sia da costruire che da conquistare. Nadal l'hanno costruito così, io sono naturale. Meglio così”.
Hai sempre giocato con gente più grande di te ma ora stai per affrontare il salto da junior ai pro.
“Sì, è un grande salto e c'è molta differenza. Faccio un esempio semplicissimo, quasi banale: in un match junior, se anche stai sotto 2-0 in un set, sai che è uno svantaggio minimo perché gli avversari sono, tra virgolette, immaturi. Ti regalano sempre qualcosa. In un Futures è diverso: se stai sotto è molto più difficile recuperare perché quelli non ti regalano mai una palla che è una. Sanno come giocare, sanno cosa fare e in più dalla loro hanno anche molta più esperienza. Da parte mia invece c'è il vantaggio di essere più piccolo di loro, quindi la responsabilità della vittoria non ricade su di me ma su di loro. Io non ho niente da perdere, loro sì. Posso giocare più rilassato”.
Quali sono state le tappe più importanti del tuo ultimo periodo?
“Beh, cambiare allenatore un paio d'anni fa è stato utilissimo. Ho trovato quello giusto per me e infatti lo ringrazio (Edoardo Medica. ndr). Ho fatto un salto enorme. In questo periodo sto proprio sviluppando il mio gioco adattandolo al circuito che dovrò affrontare. Lo scorso anno ho giocato un paio di tornei Futures, quest'anno invece farò proprio metà e metà: 50% juniores e 50% circuito pro. Sarà un anno importantissimo per il futuro”.
Credi che sia più importante il lavoro che stai facendo o i risultati che stai ottenendo?
“Certamente il lavoro che sto facendo, serve tutto per il futuro. I risultati per ora non sono così basilari, il circuito junior mi serve per prepararmi al massimo. Non dico che sia soltanto allenamento perché resta comunque da affrontare con la mentalità vincente però è chiaro che l'importante viene dopo”.
Non sembra che ti spaventi un po' di duro lavoro.
“Neanche un po': mi alleno tantissimo. E non ho problemi a farlo. Campo, atletica, palestra: lavoro cinque o sei ore al giorno e non ho bisogno di essere spinto più di tanto a farlo. Lo faccio e basta perché so che mi serve molto. Quando sono stanco lo dico, non ho bisogno di inventare scuse”.
Il tuo idolo è Nadal. Cosa gli ruberesti se potessi?
“Ammiro la sua tenuta mentale e la sua forza di testa. Credo che come lui non ci sia nessuno sotto questo aspetto. Neanche Federer. È il giocatore che ha più testa in tutto il circuito. E io voglio avere la testa come la sua. Non so se l'avrò, perché non è proprio facilissimo. Lavorerò per questo. Tutto sommato, anche metà della sua testa è già una buona cosa e di tanto sopra la media. Poi certamente non è la sua unica arma: Rafa si muove particolarmente bene e il suo diritto è un colpo che fa veramente molto male”.
Fin da piccolo hai sempre lavorato molto sull'aspetto mentale.
“Certo. Il tennis non è solo colpire bene la palla. Anzi, credo che sia una parte abbastanza marginale. Intendo dire che a questi livelli tutti sanno colpire la palla, ma la vera differenza la fanno l'aspetto tattico e la tenuta mentale. Quella è la chiave per essere più bravi degli altri”.
Credi che si possa “allenare la testa”?
“Come no. Molto. La testa è fondamentale non sono in partita, ma anche in allenamento. Se non dopo un'ora di lavoro non riesci a dare la stessa intensità mentale vuol dire che c'è qualche problema. E in partita questo sarà evidente. Fino a un paio d'anni fa non riuscivo a stare concentrato per tutto l'allenamento: oggi invece sì, sto due ore con la stessa attenzione. È quello che mi chiede il mio allenatore: stai intenso per due ore, mi dice. Allenare la testa conta come allenare il fisico”.
È una tua dote naturale quella di essere forte mentalmente?
“Penso di sì, però bisogna sempre migliorare sotto quell'aspetto. E per farlo bisogna lavorare. Può capitare che qualche volta sei più nervoso del normale e allora bisogna sapersi controllare. E poi tatticamente devi sempre essere pronto e furbo. In ogni situazione. Devi capire come giocare contro un certo tipo di avversario, devi trovare la soluzione giusta per vincere il secondo set se hai perso il primo magari cambiando qualcosa del tuo gioco. Ci sono tante cose che hanno un'importanza fondamentale”.
Qual è la tua caratteristica innata che ti potrebbe aiutare nel tennis?
“Che sono molto competitivo. Non perdo mai la mia voglia di competere. In ogni momento del match e anche fuori dal campo. Molti tennisti, per quello che ho visto soprattutto nel circuito junior, se le cose non vanno per il verso giusto, mollano. Dopo un set perso o compromesso escono dalla partita, io invece non sciolgo mai, provo sempre a fare quello che devo fare rispettando le indicazioni del mio allenatore, sia a livello tecnico che tattico. So di poter cambiare la partita in ogni momento”.
Qual è il tallone d'achille di Quinzi in campo?
“Diciamo che devo muovermi meglio. Faccio un po' fatica per via dell'altezza ma anche su questo sto cercando di lavorare per migliorare”.
Cos'è la scuola per te?
“È una cosa fondamentale. Non voglio essere un asino, voglio conoscere altre cose oltre al tennis. È importante perché ti permette di avere una base tua. Diciamo che fare bene a scuola è l'altro mio grosso obiettivo. Anche perché guadagnarsi un Diploma non è una cosa da poco. Ma questo vale per tutti, anche perché… se va male con il tennis che si fa?”.
Giusto. Ma come funziona la scuola per uno come te che gira il mondo?
“A scuola vado due volte all'anno, una ogni semestre. Sanno qual è il mio lavoro, conoscono i sacrifici che faccio e devo dire che mi supportano molto. Così come i miei genitori”.
In quale materia sei più bravo?
“In matematica. Mi piace molto. E infatti ho scelto il Liceo Scientifico, non è un caso. Sono anche piuttosto bravo; mi piace anche fisica, ma l'ho appena cominciata – da quest'anno – quindi vedremo se mi piacerà come la matematica. L'unica volta che sono stato in difficoltà è stato quando sono andato in America: per un errore di iscrizione ho frequentato i corsi per ragazzi di due anni più grandi di me. Ero abituato a fare le equazioni in Italia e mi sono ritrovato davanti trigonometria e cose del genere. Pensavo di impazzire: poi sono tornato con quelli della mia età e tutto è tornato al suo posto”.
C'è della matematica nel tennis?
“Certo che c'è matematica. Tutti gli schemi da applicare in campo io li vedo e li interpreto come se fossero matematica”.
Girando per il mondo parlerai anche diverse lingue.
“Beh, oltre all'italiano parlo lo spagnolo – visto che mi sono allenato sempre con coach sudamericani – e fino a un paio d'anni fa sapevo bene anche il tedesco. L'ho studiato per tre anni ma ora, non avendolo mai più usato, non lo ricordo benissimo. Non è vero come si legge da qualche parte che parlo russo o cinese. Non so una parola. Poi l'inglese, visto che ho passato molto tempo in Florida. Ricordo che quando mi allenavo con Bollettieri lui provava a parlarmi in italiano, forse per mettermi a mio agio, ma era più che altro una specie di dialetto napoletano il suo: lo capivo meglio in inglese (ride, n.d.r.)”.
Tennis 5 ore al giorno, poi le equazioni: tempo libero, no?
“Sì dai, un po' di tempo libero mi resta comunque. Gioco ai videogame, PlayStation, Xbox. Il mio gioco preferito è Call of Duty 3. Se potessi ci giocherei 24 ore al giorno. Ho provato a giocare on-line ma ho smesso perché dovevo pagare. Poi preferisco giocare con mio fratello, scherziamo e ci divertiamo. Poi lui è competitivo quanto me, quindi si arrabbia da morire quando perde”.
(“Infatti vinco sempre io”, irrompe Gianluca).
E gli altri sport
“Mi piace moltissimo lo sci, anche perché l'ho pratico per 5 o 6 anni (con ottimi risultati tra gli Under 8, ovviamente in anticipo, quando ne aveva 7, n.d.r.). Mi piacciono molto anche i go-kart. Sai, da piccolo un amico di famiglia me ne regalò uno: mi allenavo con un campione del mondo e andavo forte. Chiaramente poi mi piace il calcio: sono un fanatico della Juventus. Non vedo purtroppo tutte le partite perché spesso sono all'estero, ma seguo sempre classifiche e risultati”.
Ti sei allenato molto negli Stati Uniti. Cosa ti ha impressionato di quell'esperienza?
“Da un punto di vista tennistico direi che la differenza più grande è che quando entro in un'Accademia, trovi tutte le strutture libere e a disposizione di chi si deve allenare. Campi, palestre infinite, ma anche piccoli dettagli: ti forniscono acqua e integratori gratuitamente. In Italia può capitare che i campi sono occupati e non puoi allenarti oppure devi andare in altre strutture per farlo. Là ci sono infiniti campi. Ovviamente ci sono anche dei difetti”.
Ti sei confrontato con giocatori di tutto il mondo anche nel modo di allenarsi. In che cosa noi italiani abbiamo da imparare?
“Nel modo di ascoltare: gli americani in particolare ascoltano ed eseguono alla lettera quello gli viene detto dagli allenatori. Sono estremamente disciplinati. Se ti dicono che si alzano alle 4 del mattino per allenarsi alle 4.30, beh, alle 4 suona la sveglia e alle 4.30 sono in campo. Magari altri si presenterebbero alle 7”.
Tu hai mai fatto certe levatacce?
“Altroché. I primi allenamenti da Bollettieri li facevo proprio alle 4.30 del mattino. Per lui non è presto: si sveglia alle 3. Puntuale arrivava con la sua macchinina da golf con la quale gira per i vari campi e facevamo due ore insieme. Poi ovviamente studiavo e andavo a letto alle 19.30. Cosa vuoi fare? Dovrai dormire no?”.
All'epoca ti sei mai detto: 'basta, torno'?
“Dopo una settimana di Accademia in Florida volevo tornare a casa. Ricordo di aver detto a mia mamma: se non torno in Italia entro qualche giorno questi mi ammazzano. I carichi di lavoro erano durissimi, non parlavo bene la lingua ed ero sempre con ragazzi più grandi di me. È stata veramente dura. Poi mi sono abituato e ho cominciato ad ambientarmi. E mi hanno cambiato di gruppo: giocavo al pomeriggio e studiavo alla mattina. Meglio”.
Cosa credi ti abbia lasciato l'esperienza americana?
“Credo di essere maturato più velocemente con quell'esperienza. Se fossi rimasto a casa ci avrei probabilmente messo molto più tempo. È lì che è cominciata la mia carriera, a 8 anni. Anche come persona penso proprio che mi abbia aiutato a crescere”.
Mentre la scuola tennistica sudamericana che cosa ti ha dato?
“Una grande forza mentale. Spesso in giro per il circuito mi sento dire che non ho la testa di un italiano, ma quella di un sudamericano. Ed effettivamente da sempre ho avuto coach argentini o sudamericani. Credo che ci si alleni il doppio rispetto a quello che si fa in Italia: ti fanno sputare proprio il sangue. I ragazzini vengono aiutati e seguiti sempre, anche se non sembrano così forti. Provano comunque a cercare qualche stimolo per farli crescere e migliorare senza lasciarli da parte solo perché sembrano più scarsi degli altri. Non smettono: stanno lì, stanno lì, stanno lì senza mollare”.
Hai già lavorato con grandi allenatori. Bollettieri, Piatti, Infantino…
“Tutti bravissimi, ognuno col suo stile ma devo dire che tutti mi hanno aiutato in qualcosa. Per esempio a Monte-Carlo, con Riccardo Piatti, ho lavorato molto bene sull'aspetto tecnico perché a lui interessava molto di più questo rispetto ai risultati che raggiungevo nei tornei. Insomma, tutti mi hanno fatto fare dei salti di qualità in qualcosa”.
E con Medica come ti trovi?
“Molto bene: e infatti sono due anni che sto con lui. Mi conosce benissimo ormai, forse meglio dei miei genitori perché con lui passo 24 su 24. È uno che ti fa lavorare tanto e che si incavola, non tanto se perdi la partita, ma se non fai le cose giuste per vincerla. Non mi dice solo che ho giocato male quando capita, ma insieme cerchiamo di capire perché ho giocato male e che cosa devo fare per migliorare”.
Non hai ancora concesso molte interviste ma probabilmente diventeranno sempre di più. Ti piace la cosa o ti infastidisce?
“Non è che mi dispiaccia parlare, anzi. Però sinceramente se potessi scegliere andrei a farmi i fatti miei. Però capisco che è molto utile. C'è bisogno di comunicare quello che si fa. Se non ti dicessi niente non potresti sapere quello che faccio e chi sono veramente. E poi è così che funziona, fa parte del gioco: dovrò abituarmi”.
Tanto poi non leggi quello che scrivono su di te quindi sei tranquillo…
(ride, n.d.r.) “Vabbè dai, questa forse la leggerò”.