US OPEN – Due anni fa, Harrison era la nuova stella Usa e Dimitrov solo il baby-Federer. Ora i ruoli si sono totalmente invertiti.

Di Alessandro Mastroluca – 28 agosto 2014

 
Due anni fa Ryan Harrison era la next big thing di un Paese tennisticamente bisognoso di eroi, e Dimitrov solo un aspirante baby-Federer, una copia sbiadita di mille riassunti. Ora, dopo il secondo confronto consecutivo al primo turno Slam, il cambio di paradigma è totale. Il bulgaro è la nuova stella, non ancora superstar, del tennis mondiale, e non solo perché gli è bastata una mail per far cedere Maria Sharapova. Ha scomodato Tony Godsick, manager suo e di Federer, e Anna Wintour, entrambi sugli spalti per assistere alla sua prima vittoria a Flushing Meadows. Ha fatto un ulteriore passo verso la grande gloria: ha già dimostrato di avere il talento, ma non sempre ha avuto la personalità perché quel talento fruttasse nelle grandi occasioni (rivedere per credere la semifinale di Roma contro Nadal e di Wimbledon contro Djokovic). Harrison, al contrario, è sempre più il soldato Ryan da salvare da se stesso. È sceso oltre la posizione numero 150, ha perso nelle qualificazioni dei challenger da mestieranti semi-sconosciuti come Londero, Kutrovsky (noto solo perché Roddick l'ha aiutato a vedersi ridotta una squalifica per doping), persino da Boutillier. Ad Atlanta ha raccolto due game con Smyczek prima di ritirarsi contro Rosol a Winston Salem. È in evidente crisi di fiducia, ha cambiato troppi allenatori, forse messo troppa massa muscolare, nonchè creato troppe sovrastrutture su un gioco molto più simile a quello dell'amico Roddick con cui spesso si è allenato. Ha cominciato a pensare troppo e a sacrificare l'istinto, ma nel suo tennis nato sulla massima kubrickiana per cui i veri cervelluti si affidano all'ispirazione, il pensiero è una variabile destabilizzante. Perché il pensiero porta a dover scegliere, e se i risultati non arrivano, porta dubbi, sfiducia, porta non-scelte che fanno ancora più male.
 
HARRISON, PUNTURE SENZA VELENO
Harrison è incardinato un metro dietro alla riga di fondo, non spinge e non punge. I quattro doppi falli nel sesto game valgono più dei cinque punti con cui riesce comunque a salvare il turno di battuta. Il 6-2 è comunque dietro l'angolo, completato come una formalità in poco più di mezz'ora. Nel secondo set sembra esserci partita, Harrison si illumina e pesca il break del 3-2. Dimitrov sbaglia un po' di più, l'americano contiene gli errori ma ha la colpa di non chiudere le volée e soprattutto di non chiudere il parziale quando ne ha l'occasione. Va sotto 0-30 nell'ottavo game, tiene ma sul 5-4 va a servire per il set e subisce il break che sa di resa. Il tie-break inizia con le sue proteste per un servizio chiamato fuori, con il giudice di sedia che gli dice “Forse ha toccato per me” ma non se la sente di fare over-rule. E finisce con un suo errore di dritto e un pallonetto vincente di puro riflesso, di mezzo volo, di Dimitrov che praticamente chiude la partita, perché il terzo set di fatto non esiste. Finisce 6-2 7-6 6-2: in due confronti diretti ravvicinati a Wimbledon e Flushing Meadows, Harrison non ha strappato nemmeno un set al bulgaro.
 
DEBOLE CON I FORTI
Certo, si può parlare di sfortuna, e in effetti con i sorteggi nei Major non è mai stato troppo fortunato. L'ex baby fenomeno ha giocato 17 Slam: in base alla teoria delle probabilità più del 98% dei giocatori viene sorteggiato contro una testa di serie al primo turno in meno di 8 occasioni. Harrison fa parte del restante 1%. In 17 primi turni, ne ha giocati 10 contro teste di serie e ne ha persi 9 battendo solo Ljubicic nel match che lo lanciò, proprio allo Us Open. Ma da allora sono passati quattri anni. Nelle altre sette occasioni, quando ha affrontato una non testa di serie al primo turno di uno Slam, ha un bilancio migliore, 5-2. Essere forte con i deboli e debole con i forti, però, è la strada migliore verso la mediocrità. Fino a due anni fa, proprio questa era l'accusa più spesso lanciata a Dimitrov, quella di essere solo bello, o comunque più bello che utile. Il bulgaro è riuscito nell'evoluzione, a costruire un physique du rôle in grado di reggerne le ambizioni di futuro Fab Four. Harrison invece è rimasto bloccato senza arte né parte, per i puristi non è mai stato esteticamente bello, ma così certamente non è nemmeno utile. Il rischio di diventare solo l'alter ego maschile di Melanie Oudin comincia a farsi forte, e il tempo per evitarlo è quasi scaduto.