Australian Open: il cronometro che misurerà il tempo tra un punto e l'altro sarà attivo soltanto nelle qualificazioni. Il comunicato del Grand Slam Board si limitava ad approvare una richiesta di modifica regolamentare, inviata da Tennis Australia all'ITF. Il problema è che lo shot clock vuole dare scientificità laddove… non esiste!

Nato nella seconda metà del 19esimo secolo, il tennis è rimasto sostanzialmente invariato. L'unica novità davvero sostanziale, in 150 anni, è stata l'introduzione del tie-break, che peraltro ha avuto bisogno di qualche anno per diventare operativa al 100%. In virtù di questo, le sperimentazioni di qualche settimana fa alle Next Gen ATP Finals, nonché le novità annunciate dal Grand Slam Board, hanno acceso un vivace dibattito tra gli appassionati. Tra le novità che hanno fatto più discutere c'è l'introduzione dello shot clock, il cronometro che calcola il tempo tra un punto e l'altro, suonando se i giocatori superano i 20 (o 25) secondi regolamentari. L'Australian Open ha inviato una richiesta all'ITF, chiedendo di allungare il tempo dai 20 ai 25 secondi, ma collegandolo all'utilizzo dello shot clock già sperimentato a Milano. I tornei del Grande Slam hanno approvato all'unanimità: significa che l'introduzione diventerà operativa dopo la modifica regolamentare. Tuttavia – e questa è la notizia – l'esperimento si limiterà al torneo di qualificazione, come peraltro già successo allo Us Open. La poca chiarezza del comunicato iniziale aveva messo in allarme diversi giocatori, tra cui Rafael Nadal, mentre ci vorrà ancora un po' prima che la novità venga introdotta nei match più importanti. La transizione sembra inevitabile, poiché il tennis deve andare incontro alle esigenze dei new media, con uno spettacolo più rapido e fruibile per i giovani. Le lunghe pause, in effetti, non contribuiscono all'appeal. Tuttavia va detto che a Milano il gioco effettivo è rimasto più o meno lo stesso, il 15% della durata complessiva dell'incontro. “Io penso che lo shot clock non sia una regolamentazione possibile per avere un bello spettacolo – ha detto Rafael Nadal – ma se non vuoi un bello show, è un grande miglioramento”.

Il problema dello shot clock risiede nella sua natura soggettiva: non si possono mettere sullo stesso piano scambi di 30-40 colpi e un ace. Nel primo caso, è legittimo concedere qualche secondo in più per recuperare, mentre nel secondo è ridicolo che un giocatore chieda l'asciugamano tra un punto e l'altro. E allora entra in ballo la sensibilità del giudice di sedia: è lui a far partire il count-down, e lo fa a sua discrezione. È dunque ovvio che entra in ballo il buon senso. In altre parole, ci vuole rigidità verso i giocatori che perdono deliberatamente tempo, mentre è giusto avere un po' di indulgenza dopo uno scambio duro. Ma chi decide se uno scambio è stato sufficientemente faticoso? Magari per un arbitro lo è stato, per un altro no. Il concetto di shot clock nasce nel basket, dove la squadra deve tirare a canestro entro 24 secondi. O meglio, una singola azione non può durare più di 24 secondi. Una situazione chiara, oggettiva. Nel tennis si vuole portare un calcolo oggettivo laddove ci sono situazioni molto diverse tra loro. Per questo, crediamo, la faccenda sta destando più di una perplessità. Alle Next Gen Finals non ci sono stati problemi, ma si giocava indoor, su campi rapidi, in un contesto particolare. In uno Slam, con una miriade di punti e dollari in palio, potrebbe anche essere un problema. Perché se è vero che Nadal ha il vizietto di prendersi qualche secondo di troppo, ha ragione quando dice che è diverso giocare con 15 gradi, o nel clima ovattato di un palazzetto, oppure con 40 gradi all'ombra. L'Australian Open sarà un banco di prova interessante perché si gioca spesso in condizioni estreme, anche se nelle qualificazioni ci si limiterà agli incontri al meglio dei 3 set. Regolamentare è giusto, ma trovare una soluzione che accontenti tutti sarà molto difficile.