ERRONEAMENTE DEFINITO PALLETTARO DA TERRA ROSSA, LO SPAGNOLO AVEVA UN BEL TALENTO COL QUALE VINSE DUE ROLAND GARROS. MA FU ANCHE IL MIGLIOR INTERPRETE DEL TEOREMA DI SUO PADRE LLUIS: SOFFERENZA, LAVORO E VOGLIA DI SUDARE SEMPRE PIÙ DELL’AVVERSARIO

Alla vigilia di Roland Garros 1993, Emilio Sanchez scrisse un articolo per El Pais, il più importante quotidiano spagnolo. Diceva che la Spagna non aveva chance di piazzare un giocatore in semifinale. Ancora oggi, si sussurra che fosse un dispetto al rivale Sergi Bruguera. Dalla metà degli anni 80, la dinastia dei Sanchez aveva preso in mano il tennis spagnolo: oltre a lui c’erano il fratello Javier e la sorella Arantxa. Ma da Barcellona arrivava una minaccia: aveva le sembianze di uomo dallo sguardo buono ma severo, barba grigia a coprire il volto, forse a proteggerlo dal sole cocente della Catalogna. Lluis Bruguera è considerato il padre del teorema spagnolo: sofferenza, lavoro, voglia di sudare sempre più dell’avversario. Tutto quello che si è sviluppato negli anni successivi è partito da lui. Il primo a metterlo in pratica è stato il figlio Sergi, a cui piaceva il calcio ma che il padre convinse che l’obiettivo si chiamava Roland Garros. Sergi aveva l’aria sempre sofferente, fragile, in lotta con se stesso. Però a tennis giocava bene. Qualcuno lo ricorda come un ignobile pallettaro, i più generosi come uno specialista della terra battuta. Affermazioni talmente fuori luogo da sembrare comiche, perché aveva talento. Però, si sa, i luoghi comuni sono duri a cadere. Il giovane Sergi diventò professionista nel 1988 e un paio d’anni dopo era già nel team di Coppa Davis. Capitan Manuel Orantes lo chiamò per il match contro l’Austria e scelse lui per i singolari al posto di Javier Sanchez. La presero malissimo, anche in virtù di una vecchia ruggine tra Pato Alvarez (storico coach dei Sanchez) e Lluis Bruguera. Il povero Sergi trovò un ambiente ostile. Nessuno gli parlava. Alla vigilia, Emilio disse: «Io so soltanto di essere il numero uno e di avere la responsabilità di portare a casa due punti. Non ho opinioni sugli altri giocatori». Abbandonato da quelli che avrebbero dovuto sostenerlo, Sergi perse in tre set sia da Horst Skoff sia da Thomas Muster. Qualche giorno dopo, Emilio Sanchez e Bruguera si affrontarono nei quarti del torneo di Barcellona. In tribuna era un tripudio di tifo, sembrava di assistere al Clasico tra Barcellona e Real Madrid. Vinse Sanchez 5-7 6-4 6-4 e la stretta di mano mise in luce il loro odio. Per restare nel Gruppo Mondiale di Coppa Davis, la Spagna avrebbe dovuto battere la Russia, a Mosca, sul sintetico indoor. Tutti davano per scontata la mancata convocazione di Bruguera. Invece Orantes perseverò. In quel ragazzo timido vedeva il futuro del tennis spagnolo. «Vinceremo questa partita, e se perderemo non succederà nulla». Sergi vinse, di personalità, contro il forte Andrei Chesnokov e marcò il territorio. Era pronto. I Sanchez si sarebbero auto-eliminati: Emilio per ragioni di età, Javier per una litigata con Alvarez, che non vedeva di buon occhio la sua fidanzata.

In quel clima si arrivò al famoso 1993. Secondo Sanchez gli spagnoli non avevano chance, eppure Sergi arrivava da un’ottima stagione su terra, con vittoria a Monte Carlo e finali a Barcellona e Madrid. Certo, c’era qualche dubbio sui match lunghi. Qualche mese prima, aveva perso due brutte partite di Davis contro l’Olanda. Allora pensò bene di accorciarle: lasciò sette game a Henri Leconte, rifilò un triplo 6-0 a Thierry Champion e non riservò trattamenti di favore a Magnus Larsson e Fernando Meligeni. Si presentò ai quarti con appena 21 game persi. Nei quarti batté Sampras, numero 1 del mondo, poi diede un’altra lezione ad Andrei Medvedev. L’ultimo ostacolo si chiamava Jim Courier, imbattuto a Parigi da tre anni. Fu una partita storica, durissima, ultra-combattuta. Quando Courier prese un break di vantaggio nel quinto, tutto sembrava finito. Invece Sergi tirò fuori le ultime energie, Jim tirò fuori l’ultima volèe e lo spagnolo poté sdraiarsi e piangere sulla terra parigina. Quel giorno ha capito di poter diventare un grande campione. Di quelli ricordati anche dopo il ritiro. La sua carriera è ben nota: 14 titoli ATP, un altro Roland Garros (l’anno dopo, in finale su Alberto Berasategui) e tanti piazzamenti di rilievo. Alcuni dimenticati, altri ignorati. Come se a Sergi fosse riconosciuta la sola grandezza sulla terra battuta. Invece è arrivato ad un passo dall’oro olimpico, sul cemento griffato Coca Cola di Atlanta 1996, ha battuto Sampras sul duro e sapeva il fatto suo anche sui rapidissimi sintetici indoor dell’epoca. Era un signor giocatore, capace di fare tutto, pure rispostine bloccate, passanti millimetrici e tocchi sotto rete. Solo che spesso non lo mostrava. Papà Lluis l’ha impostato come uomo di sofferenza, e col senno di poi va bene così. Anche perché ha esaltato il contrasto di stili con gli ultimi grandi attaccanti. Non lo ricordano in molti, ma uno dei match più spettacolari dell’Era Open fu un anonimo secondo turno di Wimbledon 1994: Sergi battè Pat Rafter al termine di una battaglia furibonda, chiusa 13-11 al quinto. Attacco a oltranza contro difesa a oltranza. Uno spettacolo indimenticabile, peraltro replicato nella semifinale del Roland Garros 1997. Chi vinse? Indovinate un po’.