Gianluigi Quinzi ha vinto tanto da junior, poco da professionista. Dopo varie difficoltà e scelte sbagliate, sembra aver trovato la necessaria serenità alla Tennis Training School di Foligno. A Francavilla al Mare ha conquistato il suo primo titolo a livello Challenger, ed è pronto a diventare (almeno) un top 100 ATP.Con Gianluigi Quinzi la parola “svolta” è stata usata fin troppe volte. Le speranze riposte nei suoi confronti sono state tali che ogni piccolo segnale positivo veniva interpretato come il potenziale clic, con l’augurio di vedere finalmente GQ emergere ad alti livelli. Un sogno, suo e dei tanti appassionati italiani, che non si è ancora avverato, ma potrebbe aver vissuto un passaggio fondamentale a Francavilla al Mare, dove il 22enne marchigiano ha conquistato il suo primo titolo nell’ATP Challenger Tour. A livello Challenger l’azzurro non aveva mai giocato neanche una finale, e negli ultimi tre tornei non era addirittura riuscito a superare le qualificazioni, ma in Abruzzo, a un centinaio di chilometri dalla sua Porto San Giorgio, si è regalato una settimana magica, iniziata grazie a una wild card e chiusa dal successo per 6-4 6-1 contro il norvegese Casper Ruud. Un avversario di due anni più giovane, ma con maggiore esperienza, una visitina a ridosso dei top-100 e una prima parte di stagione giocata interamente nel Tour maggiore. Tradotto: il favorito era lui. Invece non c’è stata partita, perché indipendentemente dal resto, a livello di mentalità Quinzi è sempre stato un vincente. Non ha mostrato un briciolo di tensione, è scappato subito sul 4-0 in entrambi i set e dopo il match-point ha esultato come se avesse portato a casa un incontro qualsiasi. Certo, per chi ha vinto un titolo sul Campo 1 di Wimbledon, il centrale del CT Francavilla al Mare Sporting Club fa meno effetto. Ma quello era il passato, quasi un gioco, mentre questo è il presente, il tennis vero, da affrontare con una maturità tutta nuova e una guida esperta come Fabio Gorietti. Da tempo si dice che la scelta di trasferirsi a Foligno può essere decisiva per la carriera di Quinzi, e l’arrivo di un titolo Challenger ne è una prima conferma. Sperando ne arrivino molte altre. Del rapporto con Gorietti, delle scelte (sbagliate) del passato, della sua vita e di tanto altro, ne ha parlato con noi un paio di mesi fa, nell’intervista pubblicata sul numero di marzo della rivista. Ve la riproponiamo.
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Sono le 8.30 di mercoledì 21 febbraio, i cancelli del PalaNorda di Bergamo sono ancora chiusi e le persone all’interno si contano sulle dita di una mano. Ci sono il custode, l’incordatore e pochissimi altri. Sul campo si sente il battere di una palla: è Gianluigi Quinzi, impegnato ad allenarsi con coach Federico Torresi, che lo segue (con Fabio Gorietti) da quando il ventiduenne marchigiano è approdato alla Tennis Training School di Foligno. Quel giorno, GQ non deve nemmeno giocare, eppure ha già i piedi sul Greenset, un fatto che spiega perfettamente la sua voglia di riprendersi quel sogno che non è ancora riuscito ad afferrare. Fra uno scambio e l’altro, i due iniziano a confrontarsi sull’avversario del giorno seguente, Andrea Arnaboldi. «Ci hai mai giocato?» chiede Torresi. Quinzi scuote la testa. «Gioca bene il rovescio in back, viene avanti» sintetizza il coach, prima di tornare a sparare palle. Il suo compito non è facile: deve aiutare Gianluigi a dimostrare – a se stesso in primis – che può ancora esserci un futuro anche se il ragazzo ha sbagliato qualche scelta (e oggi ha la maturità per ammetterlo) e in passato ha fatto una fatica enorme a convivere con pressioni e aspettative. Ora, a 22 anni, ha ritrovato fiducia e serenità, e sembra finalmente finito nelle mani giuste. In Umbria gli hanno fatto capire che lavorano solo per il suo bene e l’hanno aiutato ad aprirsi di più. Il risultato si vede.

Con che spirito sta lavorando Gianluigi Quinzi?
Sono molto più rilassato rispetto agli anni scorsi, mi sento bene e penso di poter fare una grande stagione, sperando di riuscire a tenere lontano gli infortuni. Non bado molto alla classifica: ovviamente mi auguro di migliorare il mio best ranking (numero 226 ATP, n.d.r.) e salire ancora, ma preferisco pensare a giocare bene settimana dopo settimana.

A che punto sei del tuo percorso?
Ho fatto una buona preparazione atletica e sono migliorato in tanti aspetti, soprattutto in quello mentale. In campo riesco a gestire meglio i momenti di nervosismo, a stare più tranquillo. Mi sento cresciuto anche dal punto di vista tecnico: abbiamo lavorato tanto sul dritto, accorciando il movimento, e ho irrobustito il servizio. Riesco a gestire meglio lo scambio, raccogliere qualche punto gratuito in più, e affrontare i miei game di battuta con meno preoccupazioni.

Quanto è stato importante il tuo approdo a Foligno?
L’ambiente è molto prezioso e siamo come una grande famiglia. Mi trovo bene con tutti, la struttura ci mette a disposizione ciò di cui abbiamo bisogno e riesco a percepire la voglia di aiutarmi e farmi migliorare. Per me è un passaggio molto importante. Magari in passato altri allenatori guardavano di più all’aspetto economico, mentre a Foligno ho trovato grinta e motivazioni.

In passato avevi quasi sempre lavorato con un coach privato, mentre adesso condividi lo staff con altri giocatori: quale delle due soluzioni è migliore?
Sicuramente questa. Faccio un esempio: la mia prima trasferta con Gorietti è stata in Cina, lo scorso anno. Fabio accompagnava anche Luca Vanni, un giocatore che ha molta più esperienza di me, e per l’intera trasferta è stato come se invece di avere un allenatore ne avessi due. Sentire anche il parere di altri giocatori può servire molto. Sono state due settimane che mi hanno fatto capire tante cose. Poi stare sempre e solo in due può diventare faticoso sia per il giocatore sia per l’allenatore.
Cosa ti ha lasciato l’esperienza delle Next Gen ATP Finals dello scorso anno?
La fiducia, che fra difficoltà e infortuni era da un po’ che avevo perso. Non mi sarei mai aspettato di riuscire a lottare con giocatori di quel livello. A Fabio (Gorietti, n.d.r.) ho detto che sarei andato a fare qualche bella partita, sperando di non rimediare brutte figure. Invece mi sono reso conto che anche loro, avendo tutto da perdere, non erano così tranquilli all’idea di giocare contro di me. L’ho vissuta con serenità pensando che avrei potuto giocare bene oppure anche essere preso a pallate. Non sapevo esattamente cosa aspettarmi. Ho dato il massimo e ho visto che posso giocare a certi livelli, anche se a differenza degli altri non sono ancora in grado di dimostrarlo tutte le settimane.

Quanto ti ha fatto male vedere arrivare in alto quei coetanei che battevi quasi sempre?
Un po’, ma ora ho capito che loro sono maturati prima e sono riusciti a crescere di più rispetto a me. Però non tutti arrivano fra i primi cinque del mondo a vent’anni come Zverev, quindi penso di avere ancora una chance. Sicuramente ha inciso il fatto che fino a qualche tempo fa non ero così convinto di dover cambiare alcuni aspetti del mio gioco. Magari sarebbe stato meglio perdere qualche partita in più ma lavorare per migliorare il mio tennis.

Intendi dire che guardavi troppo al risultato e poco alla crescita tecnica?
Esatto. Mi ricordo benissimo nei tornei under 14 gente come Rublev, Khachanov, Medvedev: giocavano un tennis identico a quello di oggi, con la differenza che sbagliavano molto di più. Il mio tennis invece era meno intenso, ma sapevo approfittare dei loro errori e riuscivo a batterli spesso. Ma il loro era una sorta di percorso: era giusto portare avanti quel tipo di gioco, perché sapevano che col tempo avrebbe funzionato. Ora non dico che non penso al risultato perché conta sempre tanto, ma mi sono aperto di più. Altrimenti migliorare sarebbe veramente complicato.

Quindi ritieni di aver commesso degli errori?
È una responsabilità che devo assumermi. Non sono stato capace di seguire a dovere ciò che mi consigliavano gli allenatori. Non mi fidavo a sufficienza e pensavo che il mio gioco, già com’era, potesse rendere molto di più. Invece, rispetto ai miei coetanei che sono arrivati in alto, tecnicamente sono migliorato poco.

Altri rimpianti?
Dopo la vittoria a Wimbledon junior non ho compiuto lo scatto che ci si aspettava, principalmente a causa delle enormi pressioni dell’ambiente. Vincevo una partita e diventavo Federer, ne perdevo un’altra ed ero un bluff. Ho fatto fatica a convivere con questa situazione, mentre ora che di aspettative ce ne sono molte meno, sono più sereno e ho un approccio diverso. Se vinco, bene; se perdo, torno a lavorare. Mica posso ammazzarmi per una sconfitta. La gente mi deve vedere come un ragazzo normale perché nel tennis che conta non ho ancora combinato niente. Un altro rimpianto è legato allo scorso anno: quando ho raggiunto il mio best ranking, mi sono infortunato e ho perso due mesi.

C’è qualche passaggio degli ultimi quattro anni che cambieresti, potendo tornare indietro?
Senza nulla togliere a Ronnie Leitgeb, che è un ottimo allenatore e mi ha dato un grande aiuto, l’anno in Austria con lui non mi ha convinto. Non mi sono mai sentito davvero sicuro di ciò che stavamo facendo. Non avevamo un preparatore atletico e ci allenavamo quattro ore di fila in campo, alla Muster (Leitgeb è stato il coach storico dell’ex numero uno del mondo n.d.r.). Il problema è che poteva andare bene per Muster, forse non per me. Poi Ronnie aveva altri impegni e non mi poteva seguire tutte le settimane. La collaborazione era iniziata bene, ma poi si è evoluta in modo disordinato. Quando manca l’ordine, non mi sento sicuro.
Quanto è difficile giocare ancora a livello Challenger, quando le aspettative erano ben altre?
Ora non mi pesa, perché ho assimilato questa situazione. Prima mi infastidiva, notavo che i miei coetanei battevano gente nei primi 100 del mondo mentre io magari dovevo lottare col numero mille. Ma finivo per mettermi addosso solo ulteriori pressioni, mentre adesso sono maturato: penso solo a me stesso e a ciò che mi serve. Guardare gli altri è sbagliato e di sicuro non può farmi bene. Sono arrivati prima di me? Ok, vuol dire che sono stati più bravi. Io arriverò dopo. Non tutti esplodono a 20 anni. Fosse così, chi sta dietro dovrebbe smettere di giocare.

Come hai affrontato, a livello mentale, i periodi più complicati della tua carriera?
Mi sono appoggiato tanto alla mia famiglia, le persone che economicamente mi hanno sempre aiutato, altrimenti fin qui non sarei mai arrivato. Mia mamma è stata una sportiva (sci e pallamano n.d.r.) e certe dinamiche le conosce bene. Se ho bisogno di sfogarmi, lo faccio soprattutto con lei.

Qual è il tuo rapporto con la sconfitta?
Voglio vincere sempre, a tutti i costi, anche a carte o se corro da qui al muro con un mio amico, quindi quando perdo mi rode tantissimo. Mi chiudo in camera e voglio spaccare tutto, poi dopo un paio d’ore mi passa. Ho bisogno di un po’ di tempo per smaltire la delusione. Però le sconfitte aiutano a capire cosa è andato storto e dove posso migliorare. Ho anche scoperto che è molto importante riguardare i propri match: rivedendosi con attenzione, insieme al coach, si notano tante cose e ti accorgi che alcune convinzioni che ti sei creato durante la partita, non sono così vere.

Quanto credi ancora in te stesso e nella possibilità di arrivare in alto?
Molto. So di dover sistemare certi aspetti, ma tutto dipende soprattutto dalla testa. Se riesco a stare tranquillo, sereno e convinto come lo sono in questo momento, ascoltando i consigli del mio allenatore posso arrivare in alto.

Cosa ti attrae di più della vita dei top players? Fama, successo, soldi…
Un po’ di tutto. Si guadagnano soldi a palate ed è bello essere riconosciuti e sostenuti dal pubblico. Poi c’è l’emozione di giocare sui campi più belli del mondo. È come se fosse un altro sport rispetto a quello che gioco ora.
A oggi, ti ritieni più un giocatore da campi in cemento o da terra battuta?
Penso di avere più possibilità di vincere sul cemento e credo che a livello Challenger sia più facile prendere punti sulle superfici veloci. La partita si gioca in maniera diversa: servizio e risposta contano molto di più e gli avversari regalano qualcosa. Sulla terra invece, giocare è più complicato, perché il servizio incide meno, bisogna lavorare molto il punto e battere un buon terraiolo è difficile. Diciamo che è più facile che un risultato a sorpresa arrivi sul cemento piuttosto che sul rosso.

Il tuo rapporto con i social e il mondo di Internet?
Dopo le sconfitte capita di ricevere insulti da parte degli scommettitori delusi. Mi girano le palle, ma non rispondo mai. Blocco tutti e tanti saluti. Così come evito di leggere i commenti sul web: è pieno di persone che di questo sport non capiscono nulla. I commenti andrebbero aboliti oppure andrebbe aggiunto l’obbligo di mettere nome e cognome, ma quelli veri. Cambierebbe molto. Ho imparato a non leggerli: se ti metti a farlo, vai fuori di testa.

L’aspetto più bello della vita di un tennista professionista?
Ogni settimana hai la possibilità di prenderti la rivincita. Poi a me piace la competizione in sé. Gioco per vincere mentre ormai l’allenamento è diventato un lavoro: non posso dire che mi piace alzarmi la mattina e andare ad allenarmi. Ma l’adrenalina della partita è una grande sensazione. Devi sapere come affrontare un avversario, vedere come sta, trovare il suo punto debole. Tanta piccole sfide da vincere.

Come si è evoluto il rapporto con la tua famiglia?
Prima stavo sempre appiccicato ai miei genitori e infatti non avevo tanti amici. Mentre da quando ho iniziato a vivere da solo ho dovuto costruirmi delle amicizie, per non stare sempre solo. Il rapporto è rimasto molto stretto, ma mi lasciano fare. Anche dal punto di vista economico, da quando ho iniziato a guadagnare qualcosa, intervengono meno. Diciamo che mi lasciano la libertà di giocare a tennis, a patto di rispettare certe regole e non combinare cavolate.

Sono anche meno presenti di un tempo nei tornei.
Allora c’erano tante aspettative: mio padre vedeva un figlio che vinceva sempre ed è normale lasciarsi prendere dall’entusiasmo. Ora anche lui ha un approccio più tranquillo, anche se segue tutte le mie partite. Abbiamo imparato che a volte succede di perdere, cosa che quando ero piccolo capitava davvero raramente.
Come si sono ridimensionati i suoi e i tuoi obiettivi? Anni fa diceva di non firmare per la top 10…
Certe cose le pensavo anch’io, ma mi rendo conto che abbiamo sbagliato le valutazioni. Bisogna essere obiettivi e ragionare passo dopo passo: se pensi subito ai primi 10 e non ci arrivi, sembra che non hai combinato nulla nemmeno se sei stato top 50. Nei primi 100 sono convinto di poter arrivare, già se si parla di primi 20-30 la vedo più difficile. Ma bisogna fare un passo alla volta.

Dodici mesi fa dicevi che se nel giro di due anni la tua classifica non fosse migliorata molto, non ti avremmo più visto: confermi?
Se rimanessi altri tre, quattro, cinque anni sempre allo stesso livello, significherebbe che ho dato il massimo. Non pretendo di arrivare nei primi 100 in tre mesi, ma se non riuscissi a migliorare, dovrei essere obiettivo con me stesso: o funziona oppure è giusto mollare e fare altro.

Una scelta non da tutti.
Per me il tennis è anche un lavoro e se uno non riesce a guadagnare, che lavoro è? Non pretendo che mio padre passi tutta la vita a darmi i soldi per giocare a tennis. E per guadagnare devi stare nei primi cento giocatori del mondo.

Tanti la pensano diversamente, ispirati da gente come Paolo Lorenzi: un esempio o un caso unico?
Un caso unico. Visto il modo in cui io ho vissuto il percorso nel mondo del tennis, per andare avanti vorrei ottenere determinati risultati. Se a una certa età fossi ancora a questo livello, mi sentirei un fallito, uno che gioca tanto per farlo. E non è ciò che voglio.