La prima volta che ho incontrato Sergio Tacchini è stato nel gennaio del 2001. Il tennis non viveva i suoi anni migliori ma le Torri Gemelle offrivano ancora il miglior panorama possibile sulla Grande Mela, la crisi dei subprime era lontana, il terrorismo confinato entro certi limiti e, insomma, si viveva più tranquilli. Nel tennis vi era una sorta di passaggio di consegne tra l’era Sampras&Agassi e quella Federer&Nadal, creando un momento di vuoto nel quale si sono infilati ottimi giocatori ma non esattamente dei fuoriclasse come Andy Roddick e Lleyton Hewitt, per citarne un paio. Incontrai il cavaliere nel suo ufficio di Bellinzago Novarese, storica sede dell’azienda che da sempre porta il suo nome. La segretaria mi fece accomodare in quello che era un salone enorme, con un arredamento che ora definiremmo vintage. Lui stava seduto dietro una grande scrivania: era al telefono e sembrava noncurante della mia presenza. Mi sentivo un po’ soffocato, forse per essere di fronte al tizio che mi aveva vestito sin dalle prime lezioni col maestro Corsiero e che mi avevano descritto come un uomo dalla forte personalità, schietto ma tutt’altro che affabile. O forse era solo la presenza al suo fianco di Xsano, un pastore tedesco che rinverdiva la mia scarsa passione cinofila.
Tacchini è stato un ottimo giocatore, quando il tennis non era ancora così global. Erano gli anni Sessanta e per sei anni ha vestito la maglia azzurra in Coppa Davis. Alla faccia di chi afferma (spesso con ragione) che uno sportivo difficilmente potrà far meglio nel post-carriera di quanto abbia fatto come sportivo, Tacchini si lancia subito nel settore dell’abbigliamento tennistico, cominciando a vestire i suoi ex colleghi e con l’idea, allora rivoluzionaria, di creare una collezione che non fosse di bianco immacolato. Introduce il colore (sembra un’operazione banale, ma all’epoca si poteva tranquillamente parlare di rivoluzione) e la celebre maglietta con la manica verde e rossa trionfa a Wimbledon, indossata da Jimmy Connors. Da quel momento, c’era la processione fuori dagli uffici: Jan Kodes, Roscoe Tanner e soprattutto Vitas Gerulaitis e Ilie Nastase, tutti virtuosi testimonial del brand. Ma è nel 1978 che arriva la grande intuizione, frutto anche della semifinale raggiunta l’anno prima a Wimbledon partendo dalle qualificazioni. Tacchini mette sotto contratto John McEnroe («Il giocatore al quale sono rimasto più legato, una vera amicizia e un grande rapporto di stima. Una volta restò perplesso davanti ad un nuovo, rivoluzionario capo d’abbigliamento che gli stavo proponendo di indossare. Gli dissi: ‘John, tu giochi a tennis in maniera meravigliosa, io so fare i prodotti’. Mi rispose senza esitare che avevo ragione»), che non avrà lo stile e il savoir faire di un cavaliere ma gioca a tennis come nessun altro. Sarà lui a fare la fortuna del brand: chi non ricorda le mitiche finali made in Italy contro Bjorn Borg? L’operazione di scouting continua e i più grandi campioni vestono con orgoglio ST: Mats Wilander, Pat Cash, Martina Navratilova, la bellissima Gabriela Sabatini, tutti vincitori di Slam. Poi è il turno di un giovane americano, che Andre Agassi dipinge «come una scimmia appena scesa dall’albero» per quell’espressione non proprio vivace, ma che è in grado di seppellire tutti sul campo. Pete Sampras è stato per Tacchini un classico caso di sliding doors. Già, se Bud Colllins non avesse pregato l’amico Gianni Clerici di correre su un campo secondario a vedere il futuro del tennis americano (Michael Chang, nelle intenzioni di Bud), lo Scriba non si sarebbe imbattutto così presto in Pete Sampras. Bastarono pochi game per ritrovare Gianni «in ginocchio, a recitare il sacro mantra del tennis». Telefonò a Tacchini suggerendogli (anzi, intimandogli) di mettere subito sotto contratto questo americano di chiare origine greche, e senza troppo badare alle spese. Finì tutto bene, perché talvolta i più bravi sono anche i più fortunati. Senza quella preghiera di Collins, Pete sarebbe probabilmente cresciuto col baffo, che invece raggiunse solo anni dopo, quando i dollari ebbero la meglio sulle lire.
Ma il Cavaliere aveva idee di espansione: ormai il mondo del tennis gli andava stretto e lui che amava molto una sgambata sulle piste e sui green, cominciò a vestire campioni come lo sciatore Pirmin Zurbriggen e il golfista Ian Woosnam, ma soprattutto l’indimenticato (e indimenticabile) Ayrton Senna, certamente un personaggio di grande stile. Il successo è globale, al punto da spingerlo, nel 1991, ad aprire una lunga serie di negozi monomarca (che poi non si riveleranno la miglior scelta commerciale della sua vita); continua a sponsorizzare fuoriclasse come Marc Girardelli (5 coppe del mondo di sci) e, nel tennis, Sergi Bruguera, Goran Ivanisevic («Un piccolo cruccio perché poteva vincere molto di più. Però quel successo a Wimbledon…») e Juan Carlos Ferrero, quest’ultimo strappato addirittura a Nike. In una sola avventura non si è mai voluto buttare, quello di dirigere la nostra Federazione: «Sarei stato un tipo scomodo. Per me le federazioni andrebbero gestite come società private perché sono abituato ad una mentalità imprenditoriale, senza troppi compromessi». Avrebbe fatto bene anche lì, c’è da giurarci. Invece il Cavaliere, più che della politica sportiva, si innamora del mare e si butta nel mondo del sailing (mmh, non proprio la scelta più azzeccata), senza dimenticare l’amato tennis, dove però baffo e tre strisce sono ormai entrati con i dollaroni pesanti e fagocitano il mercato. Riesce ancora a vestire (bene) i migliori italiani, da Flavia Pennetta a Filippo Volandri, ma non tutte le scelte strategiche sono vincenti. E l’economia mondiale non è più quella dei mitici anni Ottanta. In soccorso, nel 2007, arriva una società di Hong Kong, la Hembly International Holdings, prima come partner, poi come acquirente. Il suo proprietario, Billy Ngok, crea la Wintex per valorizzare il marchio e punta subito in alto, assicurandosi le prestazioni di quello che allora era la stella emergente del tennis internazionale, un certo Novak Djokovic. Non è esattamente un caso, che il serbo abbia cominciato a vincere i suoi primi Slam proprio indossando le shirt Sergio Tacchini, alcune volte disegnate secondo i suoi gusti (ed è consigliabile a Nole di non intraprendere la carriera di stilista, dopo quella attuale). Ora l’avventura continua, passo dopo passo, coscienti che la concorrenza è ricca e agguerrita ma anche che Sergio Tacchini resta nell’immaginario comune un simbolo di stile che va salvaguardato. Come le ultime collezioni, uomo e donna, stanno dimostrando.
Semplicemente Sergio Tacchini
SPECIALE – Sergio Tacchini è stato un ottimo tennista (ha giocato anche in Coppa Davis) ma si è distinto soprattutto per aver creato un brand diventato celebre in tutto il mondo, che è partito dal tennis e ha svariato nello sci, nel golf, nella vela…E oggi festeggia 50 anni di attività.