Fortissimo da junior, grande amico di Medevdev e Rublev, da pro non ha mantenuto le promesse. E’ stato capace di battere Alcaraz a Bercy , ma quest’anno ha infilato soprattutto primi turni. Contro Sinner oggi a Pechino cerca la rivincita dopo due sconfitte
Per giocare, gioca bene, Roman Safiullin. Eccome. L’anno scorso a Bercy ha fatto cadere la mascella al pubblico del palazzo Omnisport per come ha saputo cucinarsi Carlitos Alcaraz. Un tennis ispirato, vario, intelligente: 6-3 6-4, e il Nino è tornato a la maison – come diceva il grande Roberto Lombardi.
Nelle qualificazioni Roman si era sbarazzato di Arthur Cazaux e Jordan Thompson, negli ottavi ha fatto penare per tre set Karen Khachanov, uno dei suoi amici di sempre, dei tempi in cui fra ‘KK’, Daniil Medvedev e Andrei Rublev (che ha confessato di averlo sempre temuto da junior) sembrava lui, Roman da Podolsk, il più dotato. Quello con un futuro da quartieri alti assicurato anche fra i pro, dopo aver chiuso la carriera under 18 da numero 2 del ranking e aver vinto gli Australian Open. Invece.
Intendiamoci, non è che l’avversario di oggi di Jannik Sinner sia sprofondato nel nulla, o si sia bruciato. Il suo best ranking, numero 36, in assoluto è tutt’altro che disprezzabile. Ma per chi lo conosce fin da piccolo, per chi lo ha visto esibirsi nelle giornate di vena, equivale ad una mezza insufficienza. Dopo quella fiammata parigina, del resto, come era accaduto mesi prima dopo i quarti raggiunti a Wimbledon (sconfitto proprio da Sinner), Safiullin non è riuscito quasi mai a ripetersi agli stessi livelli. Il 2024 era iniziato bene, con una semifinale a Brisbane persa con Rune dopo aver seccato Shelton, Popyrin e Arnaldi, poi un primo turno lasciato in cinque set a Griekspoor agli Australian Open, poi una sequela deprimente di primi e secondi turni interrotti solo da un paio di lampi a livello Challenger (l’ultimo a Cary, dove in finale ha rimontato Mattia Bellucci) e da un terzo turno alle Olimpiadi.
Il soggetto, va detto, è abbastanza difficile da decifrare. Come nel caso di altri suoi conterranei, non solo tennisti, a volte sembra un mistero avvolto in un enigma. A volte accanitissimo; altre oppiaceo, quasi fatalista. Qualche infortunio, certo. Come tutti, ormai. Ma anche tante pause inspiegabili, e almeno una decisione bizzarra: quella di ritirarsi sul matchpoint a favore in un match di doppio al Challenger di San Benedetto nel 2019.
A tennis ha iniziato a giocare a cinque anni, incoraggiato da papà Rashit, che di mestiere fa il maestro, palleggiando sul muro di un club con due campi da tennis, accanto ad un palazzetto di hockey nella grigia, industriale Podolsk, 43 chilometri da Mosca, dove bastoni e dischetto hanno prodotto sicuramente più campioni che la racchetta (oltre che di un campione mondiale di giavellotto, Serghey Makarov, avversario dell’immenso Zelezny).
Un po’ di calcio, un po’ di nuoto, poi la decisione che, a sentire come la racconta lui, non sembra proprio figlia di un destino ineluttabile. «Ero felice di giocare a tennis e soprattutto sono cresciuto. Poi è iniziata la scuola, quindi bisognava scegliere un’attività: o il tempo pieno a scuola o il tennis. Così ho scelto il tennis, e sono ancora qui».
Per ora, a 27 anni, con quella stempiatura e l’espressione perennemente seria che gliele fanno dimostrare anche di più, non ha ancora vinto un titolo, arrivando al massimo in finale a Chengdu nel 2023. Mai dire mai, però.
Contro Jannik ha giocato due volte, perdendo in entrambi i casi: due anni fa in Atp Cup e l’anno scorso, come si diceva, nei quarti a Wimbledon. A Pechino è entrato in tabellone come lucky loser, poi ha battuto il vecchio Wawrinka, vincendo un posto al secondo turno contro il Numero 1 del mondo. Che forse prima di scendere in campo si sarà chiesto quale Safiullin gli capiterà di affrontare oggi.