Una riflessione sul significato che potrebbe avere la stagione 2020 per tutti gli appassionati di tennis se Federer, inevitabilmente, dicesse basta. La sua eredità, al di là delle statistiche, sarà soprattutto estetica? Un aneddoto con protagonista Gianni Clerici aiuta a capirlo.

Con l’Australian Open prende finalmente il via anche la vera stagione del tennis mondiale. Si preannuncia una stagione importante, diversa da tutte le altre. La probabile (e auspicabile) definitiva esplosione della cosiddetta Next Gen; Serena Williams che potrebbe eguagliare (o superare) il record Slam di Margaret Court; Djokovic che potrebbe interrompere la dittatura nadaliana al Roland Garros; lo stesso Nadal che potrebbe raggiungere (o superare) i 20 Slam di Federer…

Ecco. Federer, appunto. Quella cominciata in Australia sarà con ogni probabilità l’ultima stagione di Roger Federer. E questo basta e avanza per farla essere una stagione diversa da tutte le altre. O quantomeno dalle ultime 23.

Buffo. Poco fa stavo per scrivere “l’ultima stagione ad alto livello”. Fortunatamente mi sono fermato in tempo. Avrebbe d’altra parte avuto senso immaginarsi un Federer normalizzato, intento a barcamenarsi per un posto tra le 32 teste di serie d’un torneo o – peggio ancora – a lottare per passare un paio di turni a Indian Welles? Federer o è di alto livello o semplicemente non è.

Inutile starci a girare attorno. Se questa come pare sarà la sua ultima stagione, il suo Farewell Tour, Roger mancherà maledettamente a tutti. Non mi riferisco soltanto all’innumerevole schiera dei suoi fans. Troppo scontato. Mancherà anche ai suoi colleghi e ai suoi più acerrimi rivali. Perché, con tutto il rispetto, un conto è vincere uno Slam battendo in finale Kevin Anderson, altra cosa è farlo battendo Roger Federer. E mancherà, statene certi, persino ai suoi detrattori (ce ne sono, ce ne sono). Ma più di tutti, mancherà al tennis. A quello che ha rappresentato (e ancora rappresenta) per la bellezza di questo sport.

Piccolo aneddoto. Nel 2010 ero seduto in tribuna stampa a seguire il quarto di finale dell’Us Open tra Federer e Soderling. Seduto vicino a me c’era il grande Gianni Clerici. Lo svedese allora era un osso durissimo, ma Roger lo stava regolando abbastanza agevolmente (vinse poi in tre set). Ricordo che a un certo punto Soderling tirò una spaventosa randellata di dritto che lasciò immobile Federer e il pubblico ovviamente si spellò le mani per quella prodezza. In quel momento Gianni si girò verso di me e mi disse: “È meglio un qualsiasi dritto in corridoio di Federer di un qualsiasi dritto vincente di Soderling”.

Paradossale? Forse, ma rende terribilmente l’idea. Ancora una volta Gianni aveva colto il punto, l’essenza della questione. Quello che ha fatto e fa amare in modo così viscerale Roger è il suo essere “bello” più ancora del suo essere “vincente”. Che potrebbe suonare persino provocatorio parlando del più vincente (almeno finora) giocatore della storia del nostro gioco. Ma è la sacrosanta verità.

D’altra parte, per rendersene definitivamente conto, basterebbe assistere dal vivo ad uno qualsiasi dei suoi match. Vivere l’atmosfera di attesa quasi messianica che si crea ancora prima che scenda in campo. Osservare come la gente reagisce, immedesimandosi, alle sue umanissime paure. Per l’ennesima palla-break mancata o addirittura per i matchpoint tristemente sprecati. Questo, più ancora di tutte le prodezze sul campo, lo hanno reso un giocatore unico.

Rieccoci allora al punto di partenza. Sarà davvero il suo ultimo anno? Annunci ufficiali per ora non ve ne sono, ma farà comunque uno strano effetto soltanto immaginare che il prossimo anno potremmo non rivederlo all’Australian Open. O pensare che il prossimo Wimbledon potrebbe essere l’ultimo. La cosa ancora più strana sta nello scoprire che in qualche modo già ci manca. E allora vorremmo abbracciarlo e dirgli una sola parola tenendocelo stretto-stretto: grazie.