Ricordando il momento in cui ha capito che Juan Monaco sarebbe diventato un campione, Daniel Panajotti teme che a Tandil si sia persa la magia di un tempo. Lui prova a costruirla a Verona.
Daniel Panajotti prova a portare il Sistema-Tandil in Italia. Il coach argentino opera in provincia di Verona
Riccardo Bisti – 21 luglio 2013
Daniel Panajotti ha tante cose da dire e altrettante da raccontare. Per anni, il coach argentino ha guidato Francesca Schiavone e l'ha condotta ai piedi di quell'eccellenza raggiunta poco dopo la loro separazione. Dopo il successo a Parigi, nelle decine di interviste e nelle centinaia di ringraziamenti, non ha mai menzionato Panajotti ("Ma nel suo libro lo ha fatto", ricorda lui con onestà). Un silenzio che stride con la storia. L'argentino, che da tempo si è stabilito in Italia (la tennis Academy Panajotti si trova a Verona, presso lo Sporting Club Arbizzano), ha svelato un aneddoto che la dice lunga sul "metodo Tandil". "Vi racconto quando ho capito che Juan Monaco sarebbe diventato un campione: aveva 6-7 anni e avevamo individuato un gioco per misurare la competitività dei bambini: abbiamo lanciato decine e decine di palle in giro per il campo, dando tre minuti di tempo per fare a gara a chi ne raccoglieva di più. Sono partiti tutti fortissimo, poi ovviamente hanno rallentato. Tutti tranne Juan Monaco. A un certo punto, improvvisamente, è svenuto. Siamo tutti corsi attorno a lui, ci siamo presi uno spavento enorme, sembrava quasi che fosse necessaria la respirazione bocca a bocca. Per fortuna non era niente di grave. Ma lì ho capito che avevamo di fronte un ragazzo straordinario. Pur di non mollare, era arrivato al collasso". In effetti, guardando un match di Juan Monaco, si nota un comportamento esemplare. "Pico" non lancia mai la racchetta. Anche quello è un retaggio di Tandil. "Quando Guillermo Perez Roldan spaccò una racchetta, il padre la recuperò e la rimise insieme con uno spago. Per mesi lo ha fatto giocare con quella. Gli disse: 'Tu la racchetta nuova non la vedi fino a quando non lo decido io'". Guillermo imparò la lezione, tanto che anni dopo la Donnay lanciò addirittura una linea di racchette con il suo nome.
Oggi, tuttavia, la Scuola Tandil mostra le prime crepe: "Ai tempi, il tennis non era un business – chiude Panajotti – oggi sono diventati famosi e fanno business. Il problema è che non producono più nessuno. Della vecchia guardia è rimasto soltanto Marcelo Gomez, l'unico che avrebbe l'esperienza per condurre un giovane al professionismo. E purtroppo manca anche lo spirito di emulazione: fino a qualche anno fa, i giocatori di Tandil tornavano a casa per allenarsi ed erano un esempio per i bambini. Adesso Del Potro fa base a Buenos Aires e la magia si è un po' persa". Panajotti non si arrende: forte degli insegnamenti di Raul Perez Roldan, prova a ricreare la filosofia a Verona, dove è seguito da un gruppo di giovani (anche bambini) di sicuro interesse, tanto che la FIT ha valutato la scuola a “5 stelle” (il massimo) secondo i nuovi criteri. Del team fanno parte 17 giocatori, sia uomini che donne. I più noti sono Giulia Remondina, Marco Bortolotti e Yuliana Lizarazo, giovanissima colombiana di Cali (è nata a Cucuta, ma si è trasferita a un anno di età). La Lizarazo, occhi timidi e profondi, era al Foro Italico perché aveva vinto il torneo Open di Padova e si è qualificata per le pre-qualificazioni degli Internazionali BNL d'Italia. Portare la “vera” Tandil in Italia è un progetto ambizioso e complicato, ma Panajotti ci crede. La serietà è fuori discussione, così come le capacità di un coach che ha fatto capire alla Schiavone cosa fosse il grande tennis.
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