In questo articolo tratto dal numero di aprile de Il Tennis Italiano il nostro «talent Scout» Fabio della Vida, storico manager e scopritore di campioni, celebra Ashleigh Barty e ci spiega come i veri coach sanno crescere i campioni: senza fretta, guardando avanti, coltivando la diversità. E non copiando il calcio…

Poche urla, tanta classe

Per «colpa» del ritiro dì Ash Barty questa volta ho dovuto un po’ correggere il mio articolo: innanzi tutto perché bisogna farle i complimenti per la carriera che ha avuto ed i risultati che ha ottenuto, ma soprattutto perché è una persona normale.

Mi spiego: oggi va un po’ troppo di moda la teoria che o sei molto alto o non puoi giocare a tennis ad altissimi livelli. Certo, aiuta, non dico di no; ma non è vero in assoluto e lo prova Roger Federer che è alto sì ma non un gigante. Nel tennis femminile conta ancora meno: Ash non è alta, anzi non è fisicamente una Wonder Woman, non si da arie da top model, non è un personaggio ma una ragazza semplice acqua e sapone. Mai dico mai la stampa internazionale l’ha considerata per quello che valeva, ma a lei non fregava niente. Per dire: se a Roma non giocava Serena Williams, giù articoli; non giocava lei, forse due righe, eppure era numero 1 del mondo. Vincevano Ostapenko, Kenin o tante altre, brave per carità, ma che non la valevano, e dài a urlare al nuovo fenomeno; vinceva lei, e «sì brava, ma…». Niente enfasi, perché non è personaggio. Ma chi ama il tennis vero, non quello chiacchierato, non poteva non godersi il suo gioco semplice, lineare, efficace, il suo essere concreta, il suo non atteggiarsi. Poche urla, tanta sostanza, tanta classe. Vinceva perché giocava a tennis meglio delle altre, perché guardava avanti ad obiettivi concreti, perché come tutti i grandi migliorava sempre e curava la tecnica, cosa che le altre spesso fisicamente superiori a lei non fanno abbastanza

«Ash» a 14 anni giocava già benissimo, ma guardava oltre, ai grandi obiettivi, quelli veri, non quelli immediati under 18 e io temo che il suo ritiro precoce – che lei giustifica con la mancanza di stimoli – sia invece una questione di noia, o meglio, di non divertimento. Perché oggi i giocatori, con le dovute eccezioni, sono spesso delle isole a se stanti. Nel senso che vivono col loro team, si salutano a malapena; non sono, non dico amici come succedeva 20 anni fa, ma neanche quasi colleghi.

Coltiviamo le diversità

Credo sia colpa della fretta, della voglia di vincere subito, a 10,12 anni, di avere un profilo social, di avere tutto il più presto possibile. Questo punisce il gioco, la crescita, e anche il loro futuro. Spesso mi chiedono chi è secondo me un buon coach, che qualità deve avere. Sono tante, ovviamente, ma per me sono due le più importanti: insegnare a giocare bene, cioè curare la tecnica, e soprattutto saper guardare avanti. Hai un allievo promettente che ha, diciamo, 14 anni? Ebbene, tu coach devi già vedere quello che sarà a 18, 20 anni, sapere come portarlo ad alti livelli, programmare la sua crescita tecnica fisica e mentale, che e diversa per ogni ragazzo o ragazza in ogni sport. Dopo, quando sei un professionista, quando col tennis dai da mangiare alla tua famiglia, allora puoi guardare all’immediato. Oggi i soldi sono forse troppo importanti, ma ragioniamo lo stesso in termini di vil denaro : se sei il primo della classe in terza media sei bravissimo, sei l’orgoglio dì papà e mamma hai tutte le basi per avere successo nella vita, ma non guadagni una lira. Se invece a 23, 24 anni sei il miglior dottore o ingegnere o tecnico e via dicendo, guadagni una cifra. Nel tennis e nello sport è uguale: dal momento in cui decidi di provare a mantenerti col tennis devi guardare avanti, non avere fretta non devi essere stereotipato come gli altri. Bisogna sapere aspettare. Io personalmente mi stupisco che in Italia oggi una scuola tennis debba avere, che so, un mental coach o un incordatore certificati dalla federazione, e non sia obbligatorio avere il «muro», ahimè sempre più raro. Il muro per i bambini e i giovani è mille volte più importante e non devi neanche dargli lo stipendio.

Oggi a 10 anni già ti vogliono insegnare ad avere una routine; che è giusto, per carità, ma ognuno si «crea» la sua routine, che alle volte e’ strana e particolare. Prendete Nadal, e immaginate che non sia Nadal, ma un normale terza categoria. Se vedete questo onesto giocatore fare certe scene con le bottigliette, forse, se avete un cuore, chiamate il 113. Ma quello è Nadal e allora lo imitate e non lo considerate un pazzo. O pensate a McEnroe, che si grattava le parti basse prima di servire, o a tanti altri ancora. Il mental coach è importante, non solo nel tennis, ma nella vita; a me ad esempio è stato utilissimo nel mio lavoro. Ma se non giocate bene a tennis non può farvi battere quello più bravo di voi, né risolvere tutti i vostri problemi, altrimenti non esisterebbe la depressione. Le corde imparate pure ad incordarvele voi, altrimenti ve lo può incordare chiunque. Non vincete però se avete le corde incordate meglio di Federer, ma non giocate abbastanza bene a tennis.

Il (cattivo) esempio del calcio

Un buon coach vi farà crescere come un buon agricoltore fa con i suoi frutti, per gradi, coi tempi giusti che ci dà la natura. Se e quando arriverete a un certo livello, allora avrete bisogno di altri specialisti. Il grande tennis non è per tutti, ma il tennis insegna tantissimo e vi dà tantissimo, se lo amate a cominciare da un lavoro. Io ero scarsissimo sul campo, ma il tennis mi fa vivere bene e mi ha insegnato tanto ugualmente.

Oggi con internet puoi vedere tutto o quasi in tempo reale e imitare i campioni, ma ricordate che i grandi, e non solo nel tennis, le mode non le hanno seguite o imitate: le hanno create. E spesso lo hanno fatto partendo dalla gavetta, e partendo da solide basi che sono le stesse da che mondo è mondo. Oggi nel calcio non andiamo ai mondiali perché prima facevamo il catenaccio, ma sapevamo giocare a pallone, dribblare l’avversario. Oggi «fluidifichiamo», abbiamo 1000 schemi, medici, psicologi, manager, motivatori, giochiamo moderno: ma non la becchiamo mai. Perché pensiamo a tutto ma non abbiamo le basi di prima. Se un ragazzino a dieci anni prova un dribbling e perde la palla va in panchina; prima i giovani dribblavano, facevano i colpi dì tacco, e abbiamo vinto quattro mondiali. Quindi è importante imparare la tecnica, crescere per gradi, divertirsi e ricordare che i bravi coach, come gli allenatori dì cavalli, si scelgono quelli buoni: quindi fatevi scegliere, non scegliete.

Prendiamo esempio da Ash, che mi mancherà moltissimo. Lei era fenomenale perché era semplice, normale e giocava più per passione che per denaro: avesse continuato un altro paio d’ anni avrebbe guadagnato chissà quanti milioni in più.

Per il tennis, non solo quello femminile, è una grave perdita. Speriamo ne arrivi presto un’altra, che come lei faccia parlare il suo tennis e niente altro.