Tre epiloghi scontati, a tratti mediocri, sono stati l'indennizzo da pagare per la splendida finale dell'Australian Open. Lo spettacolare Federer-Nadal di inizio anno non è stato seguito da finali altrettanto belle. Ci voleva un forte esercizio di fiducia per pensare che Kevin Anderson potesse regalarci una bella finale dello Us Open, contro Rafael Nadal. Saranno pure nati a 16 giorni di distanza, ma lo spagnolo vanta ben altra esperienza. Non c'è da stupirsi, dunque, per il 6-3 6-3 6-4 che ha consegnato a Nadal il sedicesimo Slam, il terzo allo Us Open. È curioso: New York è lo Slam che ha impiegato più tempo a domare, ma oggi è il più prolifico (Roland Garros a parte). In una seconda parte dell'anno che è diventata una gara di sopravvivenza, gli altri top-players sono andati giù come birilli: Djokovic e Wawrinka avevano salutato la compagnia, Raonic lo ha fatto con qualche giorno d'anticipo, Murray addirittura a tabellone compilato. E Federer ha giocato con la schiena scricchiolante. Dopo aver pagato il conto con infortuni e sfortuna, Nadal si è presentato più fresco di tutti e ha giocato uno Slam da campione: qualche incertezza nei primi turni, salvo poi crescere nella seconda settimana fino a diventare irresistibile. Non in assoluto, ma certamente per gli avversari. Nel suo percorso non ha incrociato neanche un top-20: è onesto ricordarlo, anche se Rublev lo diventerà, Del Potro vale molto di più e Anderson è stato anche numero 10. Ma non è colpa di Rafa, se gli altri si sono autoeliminati. Ha fatto il suo dovere e ristabilisce le distanze con Federer: a inizio anno c'erano tre Slam di differenza (17 a 14), a fine anno ce ne sono sempre tre (19 a 16), ma con una differenza: Djokovic è di nuovo a distanza di sicurezza e non si vedono avversari davvero credibili. Si può forse sperare in qualche giovane, visto che la generazione “di mezzo” ha deluso ancora una volta. Dimitrov si è sciolto dopo aver illuso a Cincinnati, Kyrgios perde e rilascia dichiarazioni preoccupanti, Cilic non ha neanche visto la seconda settimana, sparando 80 errori gratuiti contro Schwartzman.
ANDERSON COSTRETTO A RISCHIARE. E SBAGLIARE.
In un panorama colmo di incertezze, Nadal rappresenta una garanzia. E forse ha ragione zio Toni, all'ultimo Slam nelle vesti di coach itinerante: il segreto sta nella quantità e nella qualità dell'allenamento. Hai voglia a dire che il tennis è più faticoso di una volta, e dunque il corpo di un teenager ha bisogno di formarsi per competere alla pari contro gli energumeni. “La verità che è Rafa, Federer e Djokovic si allenavano già bene prima dei 20 anni, per questo vincevano. Se oggi qualche giovane si allenasse come loro, sarebbe già in grado di vincere” aveva sentenziato. I fatti danno ragione al nipote, che non ha mai perso la passione per il gioco, nonché il sacro desiderio di migliorarsi. E, soprattutto, non ha perso l'umiltà di guardare chi c'è dall'altra parte della rete. Solo i presuntuosi non adattano il proprio tennis all'avversario, ma Rafa non conosce la presunzione. Sapeva che i servizi di Anderson sarebbero partiti dal terzo piano. Sapeva che il servizio era l'unico colpo che avrebbe potuto consegnare un match equilibrato. Allora non ha avuto paura di mettersi a 4-5 metri dalla linea. Era l'unico modo per rispondere spesso, per fargli tirare tanti servizi, stancarlo, costringerlo a giocare quel benedetto colpo in più. In sintesi: a rischiare. Non a caso, i primi game sono durati un'eternità. Kevin spingeva a volontà, ma i punti non arrivavano gratis. Li doveva conquistare con soluzioni non sempre banali. Si salvava nei primi tre turni di servizio, poi sul 3-3 commetteva un doppio fallo sulla parità e sparava in corridoio un dritto non difficile. Errori gratuiti? Certo, ma figli della pressione che gli aveva messo Nadal. Una volta scardinato il turno di battuta altrui, Nadal ha ripreso a svolazzare per il campo, ancora più leggero. Un altro break, con pregevole chiusura a rete, chiudeva il primo parziale dopo un'ora. La partita è finita lì. Bastavano un altro paio di strappi (al sesto gioco del secondo set e addirittura in avvio di terzo) a indirizzare in via definitiva una finale senza troppi spunti. Nadal non ha lasciato spazio allo spettacolo, preferendo la concretezza.
NUMERI FANTASTICI
D'altra parte, che doveva fare? Giocare in modo scriteriato, col rischio di tenere Anderson in partita? Da parte sua, il sudafricano non ha lo spettacolo nel DNA. Ha tenuto un linguaggio del corpo fantastico, incitandosi a suon di “come on!” per tutta la partita, ma i problemi erano altrove. A rete non offre garanzie, mentre da fondocampo è un disastro se deve muoversi lateramente, anche soltanto per un paio di metri. Come detto, l'unico modo per restare a galla era servire alla grande e chiudere più scambi possibili entro i cinque colpi. I numeri hanno detto il contrario: appena 10 ace in 14 turni di battuta (ancora qualcosa di ridire sulla posizione di Rafa in risposta?) e la bellezza di 40 errori gratuiti, il quadruplo di Nadal. Ha tirato un paio di vincenti in più (32 a 30), ma è soltanto pane per gli statistici. Nel 2010, quando batté in finale Novak Djokovic, lo spagnolo aveva effettuato la sua migliore prestazione in assoluto al servizio (tant'è che, qualche tempo dopo, lo sconosciuto coach Oscar Borras provò ad attribuirsi i meriti di quel miglioramento, in virtù di qualche ora di allenamento effettuata mesi prima. Intentò una causa legale, perduta), mentre in questo torneo è stato eccezionale con la seconda palla: in finale ha raccolto uno stratosferico 70%, ma non è mai sceso sotto il 55% (nei quarti contro Rublev). Ad alti livelli, sono i dettagli a fare la differenza. Non ha concesso palle break e soltanto nell'ultimo game ha permesso ad Anderson di arrivare a 40. Nessun problema: due servizi esterni e 16esimo Slam in cascina. Stavolta non ha sentito la necessità di buttarsi per terra, e nemmeno di esultare più di tanto. Una vittoria che è frutto del lavoro, ma anche della serenità. La serenità di un giocatore che può continuare – perché no? – a inseguire Federer nella classifica dei più titolati di sempre. La storia insegna che, passati i 30 anni, vincere uno Slam diventa sempre più difficile. Ma il 2017 ha sconquassato ogni statistica. Federer è Federer, ma quei 5 anni di differenza – uniti alle difficoltà degli inseguitori – incoraggiano la rincorsa di Nadal. Tra quattro mesi, a Melbourne, proverà a diventare il primo tennista dell'Era Open a vincere tutti i Major per almeno due volte, ma prima c'è da difendere un numero 1 ATP (decisamente ipotecato dopo New York) e magari vincere l'unico torneo ancora assente dal suo palmares: il Masters, anzi, le NITTO ATP Finals. E allora certi dibattiti diventerebbero di fuoco.
US OPEN 2017 – Finale Uomini
Rafael Nadal (SPA) b. Kevin Anderson (SAF) 6-3 6-3 6-4
Roger Federer – 19
Rafael Nadal – 16
Pete Sampras – 14
Novak Djokovic – 12
Roy Emerson – 12
Bjorn Borg – 11
Rod Laver – 11
Bill Tilden – 10
Fred Perry – 8
Ken Rosewall – 8
Jimmy Connors – 8
Ivan Lendl – 8
Andre Agassi – 8