Storie di coach: mentre Amelie Mauresmo resta con Andy Murray (sia pure con qualche perplessità), Paul Annacone viene scaricato da Sloane Stephens. Ma quali tipi di coach esistono?
Di Alessandro Mastroluca – 25 luglio 2014
Due scelte opposte, due decisioni che erano nell'aria eppure riescono per certi versi a stupire. Sloane Stephens, che ha raggiunto almeno gli ottavi in sei degli ultimi sette Slam (ma deve ancora giocare la prima finale WTA), ha interrotto la collaborazione con Paul Annacone dopo la sconfitta al primo turno a Wimbledon per mano di Maria Kirilenko. A inizio anno puntava l'ingresso tra le top-10, oggi è scesa al numero 22 e non ha mai trovato quella continuità necessaria per sostenere le sue ambizioni. Contemporaneamente, Andy Murray ha annunciato che andrà avanti con Amelie Mauresmo nonostante le perplessità del resto della sua squadra, soprattutto del suo sparring storico Dani Vallverdu, tenuto all'oscuro della scelta di chiamare la francese per la stagione sull'erba. “Penso fosse molto ottimistico pensare che Mauresmo potesse avere un qualche impatto a due settimane da Wimbledon – ha commentato alla BBC Virginia Wade dopo la sconfitta di Murray contro Dimitrov – Penso che abbia imparato talmente tanto da Lendl da non aver bisogno di qualcuno che gli dica sempre cosa fare. Finché non troverà la persona giusta, credo sia meglio per lui rimanere senza coach e assimilare tutte quelle lezioni”. Ma qual è la persona giusta? Per Goran Ivanisevic, che segue Marin Cilic, “i migliori sono gli ex giocatori”, per quanto Bob Brett, il coach che ha formato lui e Marin Cilic, seguendo anche Boris Becker, non corrisponda al profilo. A Wimbledon, Becker ha vinto la finale nella finale su Edberg nella forma, ma non nella sostanza. Il tedesco, aggiunto a Vajda, ha provato ad aggiungere poco definiti piani B alle strategie del serbo, tornato alle sue sicurezze e ai piani A nella finale contro Federer. Per lui, sembra si stia ripetendo la storia già vissuta all'epoca dell'aggiunta di Todd Martin nello staff, che aveva portato quasi solo svantaggi e una grande confusione nella testa e nel movimento del servizio. Edberg, con una presenza meno ingombrante in panchina, ha suggerito soluzioni più offensive che Federer ha tradotto in nuove geometrie ai Championships.
LAVORARE SUL GIOCO O SULLA TESTA?
Quando i grandi campioni raccontano i coach che hanno fatto la differenza e li hanno resi quel che sono diventati, si possono distinguere due macro-categorie. C'è chi ha insegnato loro il gioco e chi ha lavorato sulla mente, un po' come nel calcio gli allenatori si dividono tra chi porta avanti una filosofia, vuole lasciare un marchio di identità percepibile, e chi trova il suo punto di forza nella gestione del gruppo. Nella prima rientra di diritto Brad Gilbert, che ha firmato il suo capolavoro con Agassi. Ex numero 4 ATP in singolare, ha applicato i principi di quel “Winning Ugly” che diventerà il titolo del suo libro-cult. Mai come durante l'interruzione per pioggia alla fine del secondo set della finale del Roland Garros 1999 la sua influenza è stata più decisiva (era sotto contro Andrei Medvedev, vinse al quinto). “Brad mi ha insegnato a giocare a tennis, punto” ha detto Agassi. Senza dubbio fanno parte del primo gruppo Harry Hopman, 16 successi in Davis da inflessibile capitano dell'Australia che si è trasferito alla Port Washington Tennis Academy e ha cambiato tutto il suo paradigma di vita e di lavoro per assecondare il talento di John McEnroe. C'è sicuramente Robert Lansdorp, che ha messo le basi dei successi di Lindsay Davenport. “Non avrei raggiunto nulla senza i colpi che mi ha impostato lui” ha spiegato. E c'è Tony Roche, soprattutto per la crescita di Lendl, anche se non è mai riuscito a fargli vincere Wimbledon. Ha avuto meno impatto nei periodi di lavoro con gli altri tre ex numeri 1 del mondo che ha seguito – Patrick Rafter, Roger Federer e Lleyton Hewitt – perché un approccio orientato al gioco, ai colpi, alle strategie, funziona meglio con tennisti in fase di maturazione, con un imprinting tattico ancora modellabile. Non a caso Larry Stefanki è stato fondamentale per Rios, Kafelnikov (entrambi arrivati al numero 1 sotto la sua guida), per Fernando Gonzalez, ma la completezza che ha cercato di dare all'ultimo Roddick non ha pagato. Per funzionare, Stefanki avrebbe dovuto dare prova di una flessibilità, di una malleabilità che il suo approccio non gli consentiva. Tuttavia il sesto titolo al Masters e soprattutto il settimo Wimbledon di Federer, il punto più alto della gestione Annacone, dimostrano che la regola si presta comunque a eccezioni. Nella seconda categoria rientrano, tra gli altri, Toni Nadal, Larisa Preobrazhenskaya, la “seconda madre” per Anna Kournikova, Anastasia Myskina ed Elena Dementieva presso lo Spartak di Mosca, Lennart Bergelin, la forza tranquilla dietro Borg. La sintesi con ogni probabilità più efficace l'ha trovata il guru Nick Bollettieri, coinvolto a vario titolo e a vari livelli nella crescita di 10 futuri numeri 1 del mondo: Becker, Seles, Courier, Agassi, Hingis, Rios, Serena e Venus Williams, Sharapova e Jelena Jankovic. “Sento allenatori parlare di energia cinetica, di biomeccanica, ma io di queste cose non so niente – ha spiegato – Però so come mettermi in relazione con ogni singola persona nel modo giusto per quello che sono”. Questione di empatia, di alchimia, condizione necessaria ma nient'affatto sufficiente per scrivere storia di successo.
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