Il tunisino Adel Aref era entrato nell’elite degli arbitri ad appena 24 anni, ma ha smesso a 28. “Ti pugnalano alle spalle a causa della competizione”. Oggi organizza eventi. Quel maxi-litigio con Murray. 
Adel Aref in compagnia dell'ex giocatrice tunisina Selima Sfar

TennisBest – 25 settembre 2013
 

Il “Gold Badge” è il titolo più desiderato da un arbitro di tennis. E’ la massima riconoscenza possibile, consente di arbitrare qualsiasi partita. Adel Aref, tunisino, c'è arrivato ad appena 24 anni. Oggi non arbitra più, ma è stato tra i pionieri dello sbarco arabo nel mondo del tennis. Ben presto è arrivato il momento in cui il seggiolone gli stava stretto, allora ha abbandonato l’attività e ha intrapreso un’attività di marketing per conto della Qatar Tennis Federation, nonchè una collaborazione con la federazione degli Emirati Arabi. Un personaggio interessante, anche perchè non ha più vincoli lavorativi con il circuito mondiale, il che gli consente di parlare a briglia sciolta. Come quell’episodio in Coppa Davis con Andy Murray…il sito “Sport 360” gli ha dedicato una lunga intervista che vale la pena riportare.
 
Come hai fatto a diventare arbitro così giovane?
Ho giocato a tennis dai 7 ai 18 anni, ma quando ne avevo 16 ho avuto un infortunio alla schiena che mi ha fatto ingrassare parecchio. Allora Slah Bramly e altri ragazzi mi spinsero a fare il corso in Tunisia. L’ho superato e mi sono ritrovato a lavorare in un circuito Satellite in Portogallo. Erano tornei senza giudici di linea, mi mangiavano vivo. Alla notte avrei voluto tornare in hotel, chiamare mio nonno e mettermi a piangere. A 18 anni avevo già deciso di diventare un Gold Badge. Mi dicevano che non ce l’avrei fatta perchè è un privilegio riservato ai paesi del Grande Slam. Ma ci ho sempre creduto. Due anni dopo ho preso il Bronze Badge al Cairo, poi a 22 il Silver e a 24 il Gold. E’ stato tutto piuttosto veloce.
 
Hai smesso a 28 anni. Come mai?

Nel 2008, sono stato fuori casa per 300 giorni. Ho fatto per due volte il giro del mondo. Il mio corpo mi stava spegnendo. E odiavo il fatto che non avrei potuto diventare “platino”, perchè il Gold Badge è già il massimo per un arbitro. Inoltre lo si può raggiungere anche per anzianità.
 
Ricordi il tuo primo Slam?
Wimbledon 1998, per le qualificazioni. Avevo appena 18 anni. E’ stato divertente perchè sono arrivato e non sapevo che fare. Ero spaventato, sapevo che sarebbe stata una grande possibilità, e che se avessi sbagliato non ne avrei avuta un’altra.
 
C’è stato un match che è stato il punto di svolta nella tua carriera di arbitro?
Ho fatto molte sfide di Coppa Davis. La Davis è sempre una grande sfida, perchè non hai a che fare solo con i giocatori, ma anche con il pubblico. Il mio primo match fu in Zimbabwe. Feci un volo di 15 ore da Parigi e poi arbitrai un match di cinque set, stavo sudando. C’erano in campo i fratelli Black, giocatori esperti. Da allora, ho avuto designazioni sempre più importanti.
 
E’ stato difficile ottenere il rispetto quando eri così giovane?
E’ stato un incubo. Dovevo lavorare più degli altri a causa della mia età. Devo ringrazie Mike Morrissey, il mio ex capo. Era il leader degli ufficiali di gara e gli altri erano gelosi perchè spingeva a mio favore. Mi ha dato una chance, ma io dovevo dimostrare tutto sulla sedia.
 
E’ importante fare la propria parte quando i giocatori perdono la calma. Come hai fatto a crescere su questo punto?
L’arbitraggio si basa molto sull’esperienza. Si impara a trattare con i giocatori, arriva il momento in cui li conosci tutti. Quindi non avrai mai una discussione con Federer come ce l’hai con Clement o Schuettler. E quando ho iniziato c’erano ragazzi focosi come Kafelnikov, Ivanisevic, Safin…una volta Ivanisevic fece il pazzo perchè sbagliai una chiamata sulla linea di fondo. Tremavo. Urlava, si dirigeva infuriato verso di me. Mentalmente ero bruciato.
 
Uno degli incidenti più famosi è stato in un match di Davis con Murray protagonista…
La cosa divertente è che molti pensano che io abbia smesso di arbitrare a causa dei quella partita. Niente affatto. Fa parte del nostro lavoro. Andy era molto giovane e la Gran Bretagna giocava contro la Serbia-Montenegro. Murray si è completramente perso su una chiamata, dal lato opposto al mio. Non potevo fare nulla perchè era difficile vedere e dovevo fidarmi del giudice di linea. Ha protestato per un po’ e non aveva esperienza: sotto la mia sedia c’erano i microfoni e la BBC ha creato un caso di stato. Il giorno dopo non potevo uscire dall’hotel. Sono dovuto uscire dalla porta sul retro. E’ stato un dramma, perchè non siamo autorizzati a parlare con i giornalisti su queste cose, quindi ho dovuto mordermi la lingua. La piccola consolazione è arrivata da Andrew Castle, che ha detto in diretta TV che avevo ragione. A volte è scorretto non poter dare la tua versione dei fatti. Tuttavia, il fatto che Murray fosse multato fu una gran cosa. Al successivo torneo di Wimbledon si parlava ancora di questo. Quando vivevo a Monte Carlo, c’è stato un periodo in cui non mi parlava. Potevamo camminare nella stessa strada e ignorarci totalmente.
 
Si è mai scusato?
Si, due anni dopo a Parigi. Poi ci siamo avvicinati quando è venuto a Doha e io lavoravo per la federtennis del Qatar. Ne abbiamo parlato e adesso ci ridiamo su. E’ un ragazzo simpatico, all’epoca era molto giovane e la stampa gli è saltata addosso.
 
Ci sono giocatori che non ti piaceva arbitrare?
Certo. Abbiamo una lista nera. Prima di ogni torneo devi inviare la tua lista nera e menzionare i giocatori che non vorresti arbitrare.
 
Chi c’era nella tua lista nera?
Murray era nella lista. Non vuoi mai avere problemi con lo stesso giocatore. E poi Arnaud Clement. I francesi cercano di trarre vantaggio dal fatto che parli la loro lingua. Ti chiedono perchè fa così caldo, perchè il raccattapalle lancia la palla in un certo modo, perchè l’asciugamano non è bianco…è un continuo cercare scuse.
 
La tua esperienza più folle?
Un tour in Africa occidentale. Ho fatto sei settimane di tornei futures per acquisire esperienza. Sono arrivato a Lagos dalla Svezia, e c’erano uomini armati dappertutto. Appena sono arrivato in hotel, la prima cosa che ho visto è stata una lucertola. I campi erano in pessime condizioni e ho dovuto fermare una partita perchè c’era un serpente in campo. Poi c’era un match tra un nigeriano e un francese, con due ragazzi in cima alle tribune che mi puntavano addosso una pistola, nel tentativo di farmi arbitrare a favore del nigeriano. E’ andata avanti per sei settimane.
 
Considerando che eri molto giovane, e non potevi fare davvero amicizia con i giocatori, nel tour ti sei mai sentito solo?
Sono un ragazzo socievole. Mi piace stare in mezzo alla gente, ridere, scherzare. Ma nel nostro ambiente c’è così tanta competizione che se fai amicizia con qualcuno poi rischi di essere pugnalato alla schiena. In francese si dice “panier de crabes”. Se riescono a fare qualcosa per sopraffarti…lo fanno. Quando ho iniziato a sentire questa sensazione, mi sono reso conto che non era la vita che volevo.
 
Torneresti indietro?
Mai.
 
Adesso cosa fai?
Ho aperto una mia compagnia di Sports Management. Faccio qualcosa per Victoria Azarenka, per diversi giocatori, per diversi tornei. Mi occupo della parte media, faccio marketing, trovo gli sponsor, queste cose qui. All’ultimo Wimbledon ho vestito la Azarenka per il party ufficiale. Adesso sto a Beirut e organizzo eventi. Adesso sto aiutanto la Sony a trovare talenti per la versione araba di “The Voice”.