Il serbo gioca una delle sue migliori partite, riducendo Nadal al ruolo di comparsa. Per lui è il quarto titolo a Miami. Cancellate le incertezze: è tornato quello del 2011!
Novak Djokovic festeggia così il successo a Miami
Di Riccardo Bisti – 31 marzo 2014
Non sappiamo se Novak Djokovic sia uno spettatore di “Open Court”, trasmissione tennistica della CNN condotta da Pat Cash. Lo scorso anno, dopo la vittoria di Rafael Nadal nella finale dello Us Open, Cash “svelò” il segreto che aveva consentito allo spagnolo di battere il serbo. Si era infilato negli spogliatoi poco dopo il match, e un Rafa ancora esausto gli rivelò la tattica vincente. “La potenza di Djokovic mi spaventa, soprattutto quando cerca e trova gli angoli. Giocava molto bene e io non ero in grado di batterlo, allora mi sono avvicinato alla linea di fondo”. A New York, la strategia ha funzionato. A Miami, dopo aver perso il primo set, lo spagnolo ha provato a fare altrettanto. Aveva voglia di comandare, di ribellarsi. Spingeva duro con il dritto, provava ad anticipare anche con il rovescio. Ma stavolta non c’è stato nulla da fare. Djokovic non gli ha concesso la minima reazione, e si è imposto col punteggio di 6-3 6-3 in meno di un’ora e mezza. Punteggio e durata clamorosi per Rafa e Nole, che ci avevano abituato a match infiniti e battaglie all’ultimo sangue. Stavolta è stato un dominio totale, ad eccezione dei primi 10 minuti, in cui Nadal sembrava essere scattato meglio dai blocchi (e si è procurato l’unica palla break della sua partita). Ma dal 2-2, il match ha avuto un unico padrone. Dopo una partita del genere, discorsi e congetture tattiche vanno a farsi benedire. Semplicemente, è stato più forte. Su Youtube e negli highlights finirà l’ultimo punto, simbolo perfetto della sfida. Scambio lungo, di quelli “tipici”. Nadal ha provato a sfondare in tutti i modi, soprattutto con il dritto lungolinea, ma non c’è riuscito. A un certo punto è stato costretto a scendere a rete. La volèe gli è riuscita maluccio, così si è generato un corpo a corpo a rete. Anche lì, Djokovic aveva qualcosa in più. L’ultima volèe, a campo aperto, lo ha addirittura fatto sdraiare sul Laykold. Dopo una partita del genere, una chiusura “qualsiasi” non lo avrebbe fatto esultare. A Indian Wells, nonostante la gran battaglia contro Federer, non aveva esagerato nell’esultanza.
In realtà, anche stavolta ha cercato di restare composto. Dopo la reazione d’istinto ha ripreso controllo di sè, ha salutato Nadal , si è concesso al pubblico e poi è tornato il Nole di queste settimane. Attento e lucido, quasi serioso. Molto diverso dal giocherellone di qualche anno fa, come se non volesse sprecare un solo briciolo di energia extra. Gli abbracci più sentiti sono arrivati dal suo angolo, dove Marian Vajda si è tolto la seconda soddisfazione del 2014 dopo che Boris Becker lo ha spodestato dal ruolo di head coach. Salvo ulteriori problemi di salute, il tedesco tornerà in panchina a Monte Carlo e rivedremo Vajda a Madrid. E capiremo se la doppietta Indian Wells-Miami è stata un caso, oppure se l’effetto-Vajda non è soltanto una suggestione. Nei 10 giorni del Sony Open, Djokovic ha avuto tutto: bravura e fortuna. Era il più forte di tutti, il suo rendimento è cresciuto match dopo match, ma ha avuto bisogno di giocare appena quattro partite in virtù dei ritiri di Florian Mayer (terzo turno) e Kei Nishikori (semifinale). La freschezza psico-fisica gli ha certamente dato una mano rispetto alla finale dello Us Open. A Crandon Park ha potuto far girare il motore a pieno regime, senza calcoli. A Flushing Meadows, era reduce dalla terribile semifinale contro Stanislas Wawrinka. Anche un superuomo come lui ne aveva pagato le conseguenze. Molto meglio presentarsi con tre giorni di totale inattività.
Da parte sua, Nadal non era a posto. Non si è visto tanto nel primo set, quando Djokovic faceva paura (e ha fatto paura fino alla fine), ma soprattutto quando ha provato ad aggredire. Sbraitava, come a voler dare una forza extra al suo drittone, ma raramente trovava il winner. Alla fine saranno 15, a fronte di 20 errori. Neanche malissimo, non fosse che dall’altra parte c’era un Djokovic in stato di grazia, capace di infilzarlo in 22 occasioni. L’unico vincente degno di nota è arrivato sull’1-3 del secondo, quando Djokovic ha avuto una palla break per salire 4-1. Rafa si è salvato, ha agitato il pugnetto, ha dato la sensazione di crederci ancora. Ma nei turni di servizio, il serbo era inavvicinabile. Non gli ha concesso uno straccio di chance, tenendo un’alta percentuale di prime palle. Insomma, il risultato così netto si spiega per un 75% con i meriti di Djokovic e un 25% per i demeriti di Nadal, un po’ seccato perchè continua a non vincere questo torneo. “Credo che non ci sia altro posto dove io abbia perso così tante finali” ha detto nell’intervista-show con Mary Joe Fernandez. Sono ben quattro, curiosamente una ogni tre anni: 2005, 2008, 2011 e 2014. Al contrario, è già il quarto titolo per il serbo dopo quelli di 2007, 2011 e 2012. Sfortune a parte, Miami ha confermato che tra i primi due e il resto del gruppo c’è un divario notevole, che potrebbe crescere sulla terra battuta. Già, la terra battuta: tra un paio di settimane si riparte con Monte Carlo, a casa di Rafa. Cambiali a parte, sarà ben felice di tornare nel suo habitat. Contro questo Djokovic, è una condizione necessaria. Ma non è detto che basti.
MASTERS 1000 MIAMI – FINALE
Novak Djokovic (SRB) b. Rafael Nadal (SPA) 6-3 6-3
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