LA STORIA – Dopo aver imprecato per anni sui due matchpoint sciupati nella finale del Roland Garros, oggi Guillermo Coria ringrazia quegli stessi centimetri per aver salvato la vita al figlio Thiago, 2 anni.
Di Riccardo Bisti – 22 ottobre 2014
(Foto Accademia Coria Tenis)
“Davvero sono passati 10 anni?”. Così pare. Il 6 giugno 2004, Gaston Gaudio vinceva il Roland Garros battendo Guillermo Coria in una finale tutta argentina. Il “Mago” dominò i primi due set ma finì in lacrime, come un bambino a cui avevano portato via il giocattolo preferito. Prima di perdere 8-6 al quinto, aveva avuto un paio di matchpoint, volati via per pochi centimetri. Per giorni, mesi, anni, Coria ha maledetto quei cinque centimetri. Ma oggi, che è un uomo di 32 anni, lontano dal grande giro, quei pochi centimetri sono una benedizione. Ancora oggi gli viene da piangere quando ricorda al cronista de "La Naciòn" quel pomeriggio di sei mesi fa, quando si trovava presso la sua accademia a Rosario, dove oggi allena decine di ragazzi dai 4 ai 21 anni. “Si stava giocando un torneo, c’era tanta gente, confusione, e mi sono distratto un attimo. Mio figlio Thiago, due anni, stava giocando con altri bambini. Io mi sono distratto una frazione di secondo…ed è caduto da una scala. E’ finito su un campo in terra rossa. Sono corso a recuperarlo, l’ho preso in braccio e non dava segni di vita”. Il bambino è stato salvato da altri due genitori, medici di professione, che hanno praticato la respirazione bocca a bocca. L’ambulanza è arrivata in pochi minuti e l’ospedale pediatrico di Rosario, uno dei migliori del paese, ha salvato il piccolo Thiago nonostante una frattura al cranio. “Ancora oggi, quando lo prendo in braccio, ripenso a quella immagine e mi viene da piangere. Tutto il resto non importa. Quei cinque centimetri che ho maledetto per anni sono gli stessi che hanno separato Thiago da una stringa di calcestruzzo. E’ caduto sulla terra rossa, altrimenti sarebbe morto. E io non avrei mai superato il trauma”. La tragedia sfiorata ha permesso a Coria di mettere tutto nella giusta prospettiva. Non ha più l’ossesione di rendere Rosario una specie di Tandil, dove sfornano un giocatore dopo l’altro. Figurarsi se rimpiange quel Roland Garros sfuggito via. Però adesso sa dire con esattezza cosa è successo quel maledetto (per lui) 6 giugno.
L'ERRORE DI PENSARE TROPPO
“Mi sono presentato a Parigi con tanta pressione. Federer mi aveva dato una bella lezione ad Amburgo, ma uscì rapidamente dal torneo, al terzo turno contro Kuerten. E allora tutti i giornalisti, nella principale sala conferenze, mi chiesero come avrei festeggiato la vittoria”. Nonostante la pressione, arrivò in finale. Era il più forte di tutti, il 18enne Rafa Nadal era ai box per il primo dei tanti infortuni. “La mia sfortuna furono i primi due set, troppo facili. Vedevo Gaudio in difficoltà e il mio unico timore era avere cattivi pensieri e farmi cogliere dai crampi. Ed è successo quello che temevo. Nel tennis non c’è cosa peggiore che mettersi a pensare. Non pensavo più al mio tennis, alla tattica. Guardavo lui che voleva andare via, parlava con se stesso. Mi sono fatto distrarre. Poi avevo ancora un grande odio verso il mondo per la vicenda del doping. E così ho perso la partita”. Già, il doping. Nel 2001, ad appena 19 anni, risultò positivo al nandrolone. La squalifica fu ridotta a sette mesi, ma il danno d’immagine fu incalcolabile. Persino Gianni Clerici lo soprannominò “Nandrolino”. Peccato che un tribunale, anni dopo, gli diede ragione e certificò che si trattava di un integratore contaminato. “La gente sente la parola ‘doping’ e pensa subito che si tratti di cocaina o chissà quale droga. Io l’ho vissuta male, è stata durissima, ho investito tutto quello che avevo per dimostrare la mia innocenza”. Ha pagato il migliore psicologo spagnolo per farsi fare una perizia, è andato in Francia a sottoporsi al test del capello, e negli Stati Uniti gli hanno fatto fare persino la macchina della verità. “Ma mi hanno trattato come un criminale. Ho fatto tutto il possibile per la mia immagine, ma nel tribunale era già tutto deciso”. Ma torniamo alla finale di Parigi. Perchè se parli di Coria tutto nasce e muore da lì. A fine partita, nello spogliatoio, non smetteva di piangere. “Sapevo che sarebbe stato difficile avere un'altra chance, perchè stava arrivando un certo Rafael Nadal”. Da lì è iniziato il calvario. In realtà, nel 2005 ha avuto un paio di chance per riprendersi. Ma le finali perse a Monte Carlo e Roma contro Nadal lo hanno messo KO, insieme a un’operazione alla spalla che gli ha fatto perdere il feeling col servizio. Entrò in un mare di doppi falli da cui non si è mai ripreso.
BONO VOX E GEORGE BUSH
I cattivi rapporti con i colleghi non lo hanno certo aiutato. “Anche se i falsi erano loro: se qualcuno non mi piace, non lo saluto e non gli rivolgo la parola”. Ha chiesto aiuto a Jim Loehr, il più famoso psicologo “tennistico” al mondo, ma non ha recuperato la fiducia per la gente. Ed è arrivato al momento tanto temuto per ogni giocatore: non si divertiva più sul campo da tennis. E così si è ritirato nel 2009, ad appena 27 anni, ma aveva detto addio ai migliori da parecchio. Dopo il ritiro, ancor prima della tragedia sfiorata del figlio, è nato un nuovo Coria. Una persona riflessiva, ben diversa dal bimbo capriccioso e viziato degli anni d’oro, quando ispirava naturale antipatia tra colleghi e pubblico. Eppure si, traspariva una particolare fragilità che nascondeva dietro un atteggiamento da bulletto. Coria era il ragazzo povero che si era trovato nel mondo degli hotel a 5 stelle. “Un mondo in cui perdi la coscienza di tutto, a partire dal denaro. Sei immaturo e commetti un errore dopo l’altro”. Specie se Bono Vox degli U2 ti chiede di fare una foto insieme da una terrazza di Monte Carlo, o se George Bush Sr. interrompe una cena per farti i complimenti. Ma la sua infanzia gli ha dato una mano: anche quando era numero 3 ATP, senza Facebook e Twitter, non dimenticava le origini. Mandava una cartolina alla famiglia dall’Europa o dagli Stati Uniti…e magari passava da casa ancor prima che questa arrivasse. I genitori lo avevano chiamato Guillermo perchè il padre era un fanatico di Vilas. Faceva il maestro di tennis a Venado Tuerto (mentre Guillermo era nato a Rufino), è stato il suo primo maestro e i guadagni dipendevano dall’adesione dei ragazzi alle lezioni. “A volte aveva 10 allievi, altre volte uno”. E così, in una famiglia senza particolari agi, è cresciuto un ragazzo dal talento fuori dal comune. A 13 anni ha avuto la possibilità di allenarsi a Miami. Ci hanno pensato un attimo, poi l’hanno lasciato andare. A patto che 50 dollari a settimana gli bastassero per sopravvivere.
MIRACOLATO DAL NEWELL'S OLD BOYS
Guillermo è nato e cresciuto per giocare a tennis. Il nome di battesimo era una condanna, così come una foto che conserva ancora oggi. C’è lui neonato, che dorme con accanto una racchetta da tennis. La sua prima racchetta fu una Prince Junior, e per anni il regalo di compleanno è stato qualcosa di inerente al tennis. Solo una volta, per la festa dei sette anni, gli regalarono una bicicletta. Prima di diventare un professionista ha imparato a vivere a Miami: supermercato, lavanderia, lettere scritte a mano perchè il telefono costava…e le notti in hotel a condividere la stanza con i compagni fino a quando la reception se ne accorgeva. Anche per questo, la squalifica per doping lo ha massacrato. E’ diventato ossessivo, quasi maniacale. Per anni ha bevuto soltanto bottiglie d’acqua naturale, e se non trovava un ristorante comodo per la logistica andava in un residence, lasciando alla moglie Carla l’incombenza di cucinare. La stessa Carla che ancora oggi è al suo fianco e gli ha dato due figli. Oltre a Thiago c’è Delfina, che oggi ha un anno. “Gli ultimi anni di carriera sono stati una montagna russa. Quando mi sono ritirato, tuttavia, ho capito che questa vita mi appassionava. Nei primi mesi sei contento di mollare, ma poi ti manca l’adrenalina”. Tuttavia, nonostante alcune offerte da Europa, Stati Uniti e Messico, ha scelto di aprire la sua accademia in Argentina, nonostante la burocrazia e le difficoltà interne. “Ho trovato la mia dimensione. E se ripenso alla mia carriera, sono contento di quello che ho ottenuto. Quello che non ho ottenuto? Ci ho provato”. In fondo, il destino gli ha tolto un Roland Garros ma gli ha dato molto altro. Oltre alla vita del piccolo Thiago, ha salvato anche la sua. Anni fa, stava giocando un torneo giovanile a Rosario, nei pressi del centro sportivo del Newell’s Old Boys. “Giocavano in casa, ci furono disordini e i tifosi occuparono i campi da tennis. Così rinviarono di una settimana e io rimasi lì. Il mio caro amico Matias Sosa andò via, e morì in un incidente stradale. Su quella macchina avrei dovuto esserci anch’io. Facevamo sempre la lotta per chi si sedeva accanto al finestrino, in modo da dormire meglio. Lui è morto proprio perchè era in quella posizione. Gli ho dedicato un titolo a Buenos Aires, e avrei fatto lo stesso se avessi vinto il Roland Garros”. Ma oggi, per Coria, quel Roland Garros perduto è una santa benedizione. Amen.
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