La Grand Slam Cup ha simboleggiato la ‘grandeur’ degli anni 90. Con il suo maxi-montepremi, ha offerto match leggendari. Prima di spegnersi quando i marchi non bastavano più…
Goran Ivanisevic e Boris Becker, finalisti della Grand Slam Cup 1996
Di Riccardo Bisti – 5 dicembre 2013
Erano anni tumultuosi. La “Rivoluzione del Parcheggio” di Flushing Meadows ebbe l’effetto sperato. I giocatori presero in mano il circuito mondiale, che nel 1990 divenne “ATP Tour”. Il primo effetto fu lo spostamento del Masters dagli Stati Uniti alla Germania. Dal Madison Square Garden di New York si passò alla Festhalle di Francoforte (per poi proseguire, nella seconda parte del decennio, ad Hannover). La classifica mondiale cambiò formula, istituendo il “Best 14”, che invogliava i tennisti a giocare tanti tornei…a discapito della qualità. Per la Federazione Internazionale fu un duro colpo. Rimase con i soli Slam e la Coppa Davis. Per contrastare la rivoluzione ATP, l’ITF inventò un torneo – apparentemente – inutile, ma che sarebbe finito nella storia del tennis. La Grand Slam Cup avrebbe dovuto essere un Masters alternativo, finì con l’essere un gioiello fine a se stesso. Approfittando del boom tedesco, scelsero Monaco di Baviera e l’elegante Olympiahalle, dove il pubblico poteva tranquillamente spiluccare cibo e bevande in alcuni settori degli spalti. Era la risposta tedesca (un po’ grezza, eh…) alla terrazza del Country Club di Monte Carlo. Fino al 1996 si giocato in dicembre, poi lo spostamento a fine settembre ne ha segnato l’inevitabile declino. La Grand Slam Cup si giocava con la formula dell’eliminazione diretta, ed era riservata a 16 giocatori, quelli che avevano ottenuto i migliori risultati nelle prove del Grande Slam. Ci furono anche due partecipazioni italiane: Cristiano Caratti nel 1991 e Renzo Furlan nel 1995.
L’ATP non riconobbe l’evento. Non dava punti per la classifica, ma i giocatori ci andavano eccome, richiamati dal fascino del vil denaro. Oltre all’albero di natale che campeggiava a bordo campo, accanto al cartellone del main-sponsor Compaq, il torneo metteva in palio un maxi-montepremi di 6 milioni di dollari, di cui 2 destinati al vincitore (almeno nelle prime due edizioni, poi la cifra varierà pur restando molto alta). Per questo, i tennisti la prendevano molto sul serio e hanno offerto partite eccezionali. La prima edizione andò a Pete Sampras, che battè in finale Brad Gilbert. Nel suo mitico “Vincere Sporco”, Gilbert raccontà la terribile semifinale contro Aaron Krickstein, vinta in cinque set tra insulti e offese, con la zavorra delle centinaia di migliaia di dollari in ballo. L’anno dopo trionfò David Wheaton, americano con la bandana a stelle e strisce, poi diventato uno speaker radiofonico che affronta i temi di attualità da un punto di vista biblico. L’edizione più bella fu quella del 1993, vinta da Petr Korda. Per offrire più tennis, gli organizzatori facevano giocare semifinali e finale al meglio dei cinque set. Il weekend dell’11-12 dicembre 1993 fu uno dei più emozionanti di sempre. In semifinale, il ceco battè Pete Sampras al termine di una battaglia di quasi cinque ore, il cui punteggio deve essere ricordato: 3-6 7-6 3-6 7-6 13-11. Fu uno dei match con il maggior numero di “highlights” dell’Era Open. Non pago, “Paperoga” giocò un’epica finale contro il padrone di casa Michael Stich, recente vincitore alle ATP Finals, battuto 11-9 al quinto. Uno spettacolo. Negli anni successivi, la Grand Slam Cup mantenne il suo fascino grazie a vincitori di prestigio come Ivanisevic, Becker, ancora Sampras (l’unico ad averla vinta due volte) e Marcelo Rios. Tuttavia, entrarono in ballo una serie di fattori che portarono al declino. Lo spostamento di due mesi (prodromo delle lotte per accorciare i calendari) gli diede la mazzata definitiva. Nemmeno l’istituzione del torneo femminile (due sole edizioni, vinte rispettivamente da Venus e Serena Williams) contribuì a salvarlo.
Forse non è un caso che l’ultima edizione si sia giocata nel 1999, al tramonto di un’epoca d’oro per il tennis. La si potrebbe definire “ascesa e caduta” di un tennis tedesco che era diventato il cuore pulsante del tennis mondiale. Senza più la forza dei marchi, e di una geopolitica tennistica che stava cambiando, il Masters fuggì dalla Germania salvo trovare rifugio il Portogallo, Australia, Cina e Texas. La Grand Slam Cup, malinconicamente, scomparì. L’ITF ebbe un paio di contentini, ma la sconfitta fu netta. Il primo riguardò un riconoscimento retroattivo dell’albo d’oro. Oggi i vincitori della Grand Slam Cup sono riconosciuti come tali, mentre prima era una competizione-fantasma (almeno dal punto di vista dell’ATP). E poi, anche se pochi se ne sono accorti, sono cambiati i criteri di qualificazione per il Masters ATP: prima si qualificavano automaticamente i primi otto. Adesso è così solo per i primi sette, mentre l’ottavo può essere anche qualcuno che ha vinto un torneo dello Slam pur non essendo tra i top-8. In quattordici edizioni, è successo solo una volta: nel 2004, a Houston, giocò il numero 10 Gaston Gaudio (vincitore al Roland Garros), che scippò il posto al numero 8 Andre Agassi. Oggi il problema non si pone, poichè il triumvirato Federer-Nadal-Djokovic ha vinto quasi tutti gli Slam degli ultimi 8 anni. Un modo come un altro per dimenticare, e spingere sotto la polvere, un’epoca dorata ma un po’ effimera.
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