Nel 1897 si gioca il primo torneo nel Principato ma il lawn tennis era già sbarcato da tempo in riviera. Grazie agli inglesi, al clima e all’incanto dei luoghi e a un mitico treno dipinto del colore del mare

Dopo la Grande Guerra in Riviera ci si va con il Blue Train. Il serpente di carrozze tutte in acciaio, verniciate all’esterno di un blu profondo e arredate con un lusso da Orient Express, parte alle tredici in punto dalla Gare Maritime di Calais dopo aver raccolto i ricchi passeggeri in arrivo dall’altra parte della Manica. Prima tappa, Parigi; poi il tuffo verso il Midì: Digione, Chalons, Lione, Marsiglia. La mattina seguente la tratta più charmant, verso est, dove dopo la bufera gli hotel hanno riaperto, i caffè spostato le macerie per far posto ai tavolini e sul lungomare, fra la promenade des Anglais e il Larvotto, rifiorisce la voglia di vivere, di divertirsi. Di rischiare una fortuna al Casino e stravolgersi di tennis.

St-Raphaels, Juan-les-Pins, Antibes, Cannes, Nizza, Monte Carlo, Mentone: dodici ore dalla Gare du Lyon alla Croisette. Il Times pubblica ogni settimana una colonna dedicata agli eventi mondani della Riviera, del resto gli inglesi – compresa la regina Vittoria con il suo seguito di 80 persone – da quelle parti hanno iniziato a svernare già nella seconda metà dell’Ottocento.

I Renshaw e Matisse

A portare a Cannes il nuovo sport, rinchiuso nelle casse del Maggiore Wingfield che contengono quattro racchette, la rete e un set di picchetti e martello, oltre alle indispensabili rules of the game – è stato Thomas Robinson Woolfield, immobiliarista di Birmingham sedotto dal clima e della bellezza dei luoghi che nel 1974 ha costruito il primo campo da Lawn Tennis accanto alla neonata ferrovia.

Con rapidità vegetale, nutrito dal sole, dall’incanto del paesaggio e dagli spazi offerti dai grandi Hotel – il Beau Site, il Carlton, l’Esterel – il tennis ha attecchito immediatamente e già negli anni ’80 dell’Ottocento sono nati i primi tornei.

Appuntamenti mondani, felici, dove spopolano i gemelli Renshaw: William, «astuto come una volpe», sei volte di fila campione a Wimbledon; ed Ernst, «veloce come un fox-terrier», imbattibile nello scommettere ad handicap, regalando un 15 di vantaggio o vestendo da donna con corpetto e crinoline per gabbare gli illusi. Maud Watson, la prima campionessa di Wimbledon, scende per allenarsi al Beau Site con le sue gonne lunghe e i cappellini a tesa larga. Dall’altra parte dell’Atlantico arrivano invece gli yankee con i variopinti cap e le righe delle giacche varsity sbottonate sopra le bianche flanelle.

Le tribune sono piene di ombrellini e pagliette che osservavano campioni come Sears e Dwight intagliare rovesci contro il blu cobalto del mediterraneo e il rosso mattone dei campi. La primavera e l’inizio estate in Riviera? Un paesaggio dipinto da Matisse.

Sotto gli occhi di Sarah Bernhard

A Monte Carlo il tennis debutta nel 1880: un paio di campi provvisoriamente ricavati sul prato prima destinato al tiro al piccione, dietro lo sciccosissimo Hotel de Paris. Tredici anni dopo il Principe Carlo III, ascoltato il consiglio del Conte Bertora, dispone la creazione di due campi permanenti su quello che in realtà è il tetto della cantina dell’Hotel – ingombro peraltro di inestetici camini… – suscitando la preoccupazione dei sommelier e dei blasonati etilisti della high society.

Il primo vero torneo ha luogo nel 1897, centoventisei anni fa – anche se qualche erudito come Alan Little, il vecchio bibliotecario di Wimbledon, lo retrodata di un anno. E’ comunque nel ’97 che, bagnata di costosi Champagne, si stappa ufficialmente l’era dei Doherty Brothers, gli dei inglesi del gioco svezzati a Cambridge ma adorati in Riviera: 226 iscrizioni, 95 giocatori provenienti da tutte le parti del mondo, una Wimbledon in miniatura, senza pioggia e con il Pastis al posto delle fragole con panna, dove i bros, sotto gli occhi stregati di Sarah Bernhard, non fanno toccare palla a nessuno per dieci anni.

Quando l’Hotel finalmente reclama lo spazio, il torneo si trasferisce alla Condamine, poi a Beausoleil, sul tetto del prosaico garage «Auto Riviera». Nel frattempo è scattato il nuovo secolo, ed iniziato il regno di Tony Wilding, fuoriclasse neozelandese che gira l’Europa in motocicletta, gioca e danza con i re, dorme dentro il sacco a pelo sulle terrazze dei club e recita a memoria i classici greci.

Nizza e Sanremo sono gli appuntamenti più selettivi, «ma il torneo di Monte Carlo», scrive Wilding, che dopo averlo vinto cinque volte, una più dei suoi successi a Wimbledon, morirà nel 1915 sotto le bombe tedesche a Neuve Chapelle «è organizzato in maniera sontuosa. L’ingresso ai campi è gratuito, e tutto il business, compreso il tiro al piccione e le gite in motoscafo, è offerto dal Casino. Neppure le autorità si aspettano che i loro benefattori passino tutto il giorno a scommettere soldi e quindi non badano a spese provvedendo ad altri piccoli divertimenti, fra i quali il tennis».

La fidanzata di Wilding è Maxine Elliott, famosissima attrice del West End londinese che passata la guerra, dopo aver pianto l’amore caduto nelle Fiandre, si ritira dalle scene e costruisce fra Nizza e Cannes lo Chateau de L’Horizon, splendida e leggendaria villa-albergo per amici vippissimi, che per decenni ospiterà chiunque conti parecchio in Riviera; da Edoardo VIII e Wallis Simpson a Winston Churchill – che ci sverna con la moglie custodendo l’Impero e dipingendo acquerelli – dall’Aga Kahn ai Rothschild. Un capolavoro art decò, con la famosa piscina scavata nel marmo collegata con uno scivolo al mare. Tenera è comunque la vita, in «quel posto soleggiato per gente losca», come lo definisce Maugham, la quinta perfetta per gli amori bipolari e disperati di Scott Fitzgerald.

Al Commodore non piace il garage

Monte Carlo, nel frattempo, è diventato un torneo di successo. Sui suoi campi nel ’22 ha vinto Mino Balbi di Robecco, il nobile italiano predecessore di Pietrangeli e Fognini, che a tempo perso trova anche il tempo di fare il portiere del Genoa, e ci è passata la Divina Lenglen, già professionista in gonnellino e bandana nonostante le ipocrisie che lo vieterebbero. «Scommetto mille franchi che mia figlia giocherà il vostro torneo!», dice papà Charles sfidando l’orripilato giudice arbitro George Simmonds. Scommette bene: sono gli stessi Grimaldi a versare l’obolo, pur di vedere all’opera la più grande delle celebrities sportive dell’epoca.

Solo la location, diremmo oggi, non è all’altezza. A correggere l’inestetismo ci pensa il magnate americano George Pierce Butler, detto Il Commodoro. «Al torneo serve uno scenario all’altezza del suo blasone – tuona nel 1925 – e non il tetto di un garage». Louis II, benevolo e lungimirante, gli dà retta. Attraverso la Société des Bains de Mer investe 100 milioni di franchi per acquistare qualche ettaro di terreno scosceso sotto Roquebrune, nel comune di Saint Martin.

L’architetto Letrosne progetta, 1.500 operai sbancano la montagna per ricavarne le digradanti terrazze separate da cipressi che ospiteranno venti campi, il famoso ristorante affacciato sul centrale, club house e spogliatoi attrezzati per ospitare settecento soci. Eccolo, quello che ancora per dieci mesi si chiamerà si chiamerà La Festa Country Club, ma è già nella struttura, nello scenario da capogiro e nell’allure è il Monte-Carlo Country Club che conosciamo. Il primo torneo che ospita la nuova struttura sono i Campionati monegaschi, dal 17 al 24 dicembre del 1927. All’inaugurazione del febbraio successivo partecipano la Granduchessa Elena e il Granduca Andre di Russia e re Gustavo di Svezia, il sovrano-tennista che secondo il suo antico avversario Wilding «usa tutti i suoi sei piedi di altezza nel servizio, ma soprattutto possiede un’intelligente concezione degli angoli e non si fa sconcertare dalle discese a rete».

Da Palmieri a Fognini

Negli anni Trenta al Country Club sfila la crème del gioco: il grande Tilden, Cochet, il Barone von Cramm. E il nostro Giovanni Palmieri, papà del Sergio che oggi dirige gli internazionali d’Italia, vincitore nel ’35. La nuova guerra significa altri sei anni di stop, ma giusto il tempo di ricostruire e dagli anni ’50 in poi il torneo, anche grazie alla figlia del Commodoro Butler, Gloria, che si inventa la festa dei giocatori e altre iniziative glamour, torna ad essere una delle patrie del jet-set, con Gianni Agnelli che parcheggia il motoscafo al Porto vecchio e Grace e Ranieri che premiano tre volte Pietrangeli fra ’61 e ’68. Gossip, joie de vivre, mondanità. La presidentessa è Antoinette, sorella di Ranieri, e a lei nel 1973 si rivolge fra il farsesco e il disperato Nastase, opposto ad un giovanissimo Borg: «faccia qualcosa, qui sono tutti contro di me!».

Qualche anno più tardi a fare notizia è Guillermo Vilas, il poeta del tennis, per il paparazzato flirt con la principessina Carolina. Il torneo femminile evapora nell’82, dopo che Lea Pericoli ha fatto in tempo a giocare una finale nel ’66 e a cavallo del Millennio il tennis cambia definitivamente stile e maniere, con Agassi non elegantissimo ospite che pretende di essere accompagnato a Torino in elicottero per vedere la Sacra Sindone.

Altri tempi, altre abitudini e mezzi di trasporto: ad applaudire il lungo regno di Nadal e l’impresa di Fognini nel 2019 non ci sono più i nobili e i ricconi depositati dal Blue Train ma decine di appassionati che partono all’alba in pullman da tutta l’Italia del nord per godersi una giornata di grande tennis. E al tramonto, prima di ripartire, osservano rapiti il blu profondo del mare, da 125 anni il più impassibile e fascinoso degli spettatori del torneo.