“È stato come salire su una macchina del tempo: un'idea di come sarà il gioco del futuro. Forte, molto forte, fisico e dirompente. Fatto non più da tennisti vestiti in bianco candido, ma da replicanti che piuttosto assomigliano a corazzieri”, scriveva al tempo Giuliano Foschini su Repubblica, abbagliato da quel sedicenne dalla faccia pulita che piaceva a tutti, e un diritto che richiedeva già il porto d’armi. “Ai tennisti della domenica perché un giorno vorrebbero avere anche loro quel diritto forte e armonioso; alle donne perché ha l'età che fa tenerezza; alle ragazzine perché con quella maglietta azzurra e il pantaloncino bianco sembra uscito da un giornale patinato”. Normale che Nadal non ricordi molto di quel titolo in Puglia, visto che i Challenger li ha assaggiati appena, e poi ha vinto di tutto e di più. Ma nel sito ATP, ovviamente, le tracce non sono sparite. Nadal era arrivato a Barletta subito dopo la finale a Cagliari, dove Filippo Volandri lo obbligò alla terza sconfitta in altrettante finali, KO che nella mente di Nadal alimentò più di una perplessità, e ha generato un aneddoto che, col senno di poi, la diceva già lunga sulla mentalità vincente di Nadal e sulla sua capacità di non accontentarsi mai, qualità alla base di una delle menti più forti che lo sport abbia mai conosciuto. L’ha raccontato qualche mese fa l’argentino Sergio Roitman, che lo batté il mese prima in finale a Cherbourg. “Era desolato, così andai a consolarlo, dicendogli che avrebbe vinto tanti tornei Challenger, e poi sarebbe diventato un grandissimo giocatore. Non potrò mai dimenticare come mi rispose: disse che aveva paura di avere la sindrome di Lendl, che perdeva tante finali. Avete capito bene: a sedici anni aveva già giocato tre finali Challenger e si preoccupava di non essere all’altezza”.

A cancellare i suoi dubbi fanciulleschi ci pensò l’Open Città della Disfida, che negli anni precedenti aveva già accolto nell’albo d’oro gente come Carlos Costa (che nel 2003 accompagnava “Rafa” in Puglia), Felix Mantilla e Sergi Bruguera, e nelle due stagioni seguenti avrebbe premiato Nicolas Almagro e Richard Gasquet. L’allora sedicenne maiorchino superò all’esordio la leggenda del circuito Challenger Ruben Ramirez-Hidalgo (“si parlava già molto di lui, giocava alla grande e la sua incredibile forza mentale era già evidente”), poi Martin Vassallo Arguello, Albert Montanes, il tedesco Tomas Behrend e quindi il connazionale Albert Portas, sconfitto per 6-2 7-6 in finale. “La finale ha confermato quanto di buono aveva fatto vedere il giovanissimo spagnolo nel corso di tutta la settimana: un diritto potente, un rovescio sempre ben calibrato, un buon gioco a volo: caratteristiche che lasciano intravedere per lui un futuro luminoso”, prevedevano al tempo sempre su Repubblica. Frasi abbinate chissà quante volte a dei giovani emergenti, ma per una volta azzeccatissime. Quindici anni dopo risuonano come delle sentenze, pronunciate da un torneo dall’albo d’oro più che fortunato, anche se storicamente poco amico dei giocatori italiani. Fra i tornei dello Stivale con una certa tradizione, è l’unico a non aver mai incoronato nessun italiano. Hanno sfiorato il titolo in sei, da Sanguinetti a Starace, passando per Furlan, Di Mauro, Galvani e Volandri, ma nelle scorse diciotto edizioni mai nessuno ha saputo andare oltre la finale. Un compito che quest’anno è rimasto nelle mani di tre azzurri: Bolelli, Donati e Moroni. Nessuno diventerà come Nadal, ma già fargli compagnia nell’albo d’oro di un torneo non dev’essere poi così male.
