Uno studio mette in relazione i giocatori di seconda fascia e l'accanimento dei giocatori d'azzardo: in comune c'è la scarsissima probabilità di un enorme profitto, ma spesso finisce male. Senza il miraggio del guadagno, ci sarebbe un maggior numero di ritiri tra gli uomini che tra le donne.

Diventare un professionista del tennis è una decisione molto rischiosa. Per certi versi, l'aspirante tennista ricorda un po' il giocatore d'azzardo: è consapevole della possibilità di un grande profitto, ma anche che tale possibilità è davvero minuscola. Secondo alcuni calcoli statistici, nel 1997 un 18enne intorno al numero 100 ATP avrebbe avuto meno di una possibilità su mille di intascare un career prize money superiore ai 10 milioni di dollari. Cifra importante ma non stratosferica, tenendo conto delle spese. Escludendo le spese per un allenatore, un tennista di buon livello spende circa 40.000 dollari all'anno. In altre parole, circa l'80% dei professionisti non guadagna nulla. Il tennis possiede un triste primato: è lo sport con il maggior livello di disuguaglianza in termini di guadagni. I tennisti di alto livello intascano parecchi soldi, ma basta uscire dai top-100 per trovare situazioni economiche tutt'altro che floride. Se poi si esce dai primi 200, il guadagno si azzera e il passivo diventa una triste realtà. Sono ben note le battaglie sindacali per aumentare il montepremi nei tornei del Grande Slam, anche a tutela di chi perde ai primi turni. Tuttavia, chi vincerà l'imminente Australian Open incasserà circa il 18% del montepremi complessivo. Al contrario, chi perde al primo turno raccoglie lo 0,3%, che pure rappresenta una cifra importante. Talmente decisiva che gli aventi diritto scendono in campo anche senza essere in perfette condizioni fisiche. C'è poi la delicata transizione da junior a professionista: chi vince tanto tra i ragazzini ha una buona base, ma non c'è garanzia di successo.

IL MIRAGGIO DI UN GRANDE PROFITTO
Tralasciando casi ben noti come quello di Gianluigi Quinzi (sperando che possa rimettersi in sesto) o di Donald Young, l'interessante articolo di "The Conversation" prende in esame un giocatore la cui carriera è già fatta e finita. Da junior, il danese Kristian Pless è stato numero 1. Da professionista non è mai andato oltre il numero 65 ATP e ha intascato poco più di un milione di dollari, lordo, spalmato in una decina d'anni. Statisticamente, i teenagers che battagliano nei tornei minori non hanno praticamente possibilità di guadagnare. Tuttavia, si fanno abbagliare da una minuscola possibilità. Studi scientifici hanno dimostrato che una piccola chance di grande profitto è la ragione per cui molti (troppi?) tennisti portano avanti la loro carriera. Sia gli studi sperimentali che quelli empirici sulle persone dedite al gioco d'azzardo suggeriscono come le persone siano attratte da una scommessa definibile come “distorta”, ovvero la piccola possibilità di un enorme profitto. Facciamo l'esempio di due lotterie. Una mette in palio un dollaro, con una possibilità di vincita del 50%. L'altra mette in palio 80 centesimi al 49%, 10 dollari all'1% e il restante 50% è sconfitta sicura: bene, anche se la prima lotteria ha un guadagno medio più elevato e meno incertezza, studi hanno dimostrato che i giocatori sono molto attratti dalla seconda.

IL MECCANISMO DELLE SUPERSTAR
Tale comportamento è riscontrabile anche nei tennisti di seconda fascia, la cui carriera è paragonabile a un enorme gioco d'azzardo. I giocatori con la percezione di ottenere un enorme profitto sono più propensi a restare in attività: è brutale, ma i tennisti si comportano esattamente come i giocatori d'azzardo quando hanno puntato su un cavallo. Sembra che tale atteggiamento sia più frequente tra gli uomini che tra le donne. Infatti, senza la possibilità di un enorme guadagno, il tasso di abbandono sarebbe molto maggiore in campo maschile (20%) che femminile (5%). La proiezione porta a ulteriori riflessioni: gli uomini giocano a tennis soprattutto per soldi, mentre le donne sono spinte anche da altre motivazioni. Passione, competitività femminile, chissà. Tali effetti sono ovviamente inferiori nel tennis che nei giocatori d'azzardo, la cui tendenza è chiaramente patologica (ovvero, si gioca esclusivamente per il guadagno. Non ci sono altre motivazioni). Però sono comunque importanti, e fanno capire come – in assenza di guadagno – molti farebbero altre scelte anziché cercare di imitare Roger Federer. Difficile individuare le cause: forse è la tecnologia, che ha garantito enorme visibilità a un piccolo numero di persone che sono in grado di catturare molti dei guadagni disponibili in una particolare occupazione. Pensiamo al mondo della musica, o dell'editoria. Il meccanismo della “superstar” è tra i più potenti nello spingere una singola persona nell'intraprendere una determinata carriera. A ben vedere, non è del tutto irrazionale: le persone provano piacere nello sperare in un gran profitto sul lungo termine. Il problema è che molti, troppi tennisti sembrano giocare con le loro carriere. E, quando l'irrimediabile sarà già accaduto, finiranno col rimpiangere le loro decisioni.