Nella lunga corsa al professionismo non bisogna mai perdere di vista la scuola e lo studio, per non rischiare di trovarsi un domani in un vicolo cieco

La rielezione di Andrea Gaudenzi a presidente dell’Atp, con Massimo Calvelli al suo fianco nel ruolo di Ceo, ritengo sia un segnale molto positivo.

La tempistica del loro primo mandato non è stata fortunata, visto che l’inizio era coinciso con l’esplosione del covid e si è trattato poi di gestire mesi molto difficili. Il fatto che il provvedimento del nuovo mandato sia ‘Baseline’, il piano economico per aiutare i giovani e chi subisce infortuni gravi, significa che l’Atp è in buone mani. Sia Andrea sia Massimo stanno svolgendo un ottimo lavoro, e non lo dico solo perché io sono molto a favore del Made in Italy.

Bisogna spingere lo sviluppo del tennis, ma sapendo bene che lo sport professionistico non è per tutti. È quindi giusto agevolare l’ingresso di chi ha le qualità per farlo nel circuito, ma il mio suggerimento è di insistere anche sulla scuola, sull’educazione, sull’importanza di frequentare l’Università come avviene negli States. A meno di trovarsi di fronte a fenomeni, a ragazzi con doti superiori, ‘nati’ per eccellere, lo studio va coltivato per evitare un domani di trovarsi in un vicolo cieco. È vero che oggi le carriere si allungano, che come dimostrano Djokovic e Nadal si può essere competitivi oltre i 35 anni, e che quindi per i giovani è più difficile entrare nel circuito. Ma è altrettanto vero che la corsa non bisogna farla su eccezioni come Alcaraz, Sinner o Rune, piuttosto su ragazzi come Arnaldi o Bellucci, ottimi atleti di seconda fascia, che seguono un loro percorso, magari meno rapido ma che sanno – come dimostrano gli exploit di Matteo a New York – comunque arrivare ad alto livello.

Il professionismo richiede un apprendistato con tempi medio-lunghi, servono 3-5 anni per fare il salto fra i grandi. Come sapete il mio sistema prevede 5 punti: il primo è insegnare a giocare a tennis, il secondo insegnare la ‘professione’ del tennista, poi si passa ad altro. È stato così per il gruppo di Caratti e Furlan, poi per Ljubicic, e la stessa strada stanno seguendo ora alcuni ragazzi che abbiamo al Piatti Center di Bordighera, come Dahame Manas, Lorenzo Carboni, Daniele Rapagnetta, Filippo Garbero.

Con il Centro stiamo avviando contatti anche con una realtà, quella dei paesi arabi, che in queste ultime settimane è stata al centro dell’attenzione, nello sport in generale e nel tennis in particolare con l’assegnazione delle Next Gen Finals a Jedda. I diritti civili sono molto importanti, e l’Arabia Saudita è un paese che vive una situazione problematica sotto questo aspetto, ma non credo che alzare muri sia la via giusta. A mio parere mescolare politica e sport è pericoloso, personalmente credo sia stato sbagliato impedire l’anno scorso ai tennisti russi di partecipare a Wimbledon. Non sarà l’Arabia – o il Qatar o Dubai, dove peraltro si gioca da decenni – a ‘portarci via’ il tennis. I grandi tornei hanno tradizione e storia sufficiente a sopravvivere. Ma allargare gli orizzonti, i confini, e i mercati, del nostro sport, credo sia la strada giusta.