Da diversi anni, il settore femminile regala grandi gioie al tennis italiano. Ma qual è la reale condizione delle donne nel mondo del tennis? 

Di Riccardo Bisti

 

(Inchiesta pubblicata su TennisBest Magazine)

Erano le cinque della sera del 4 giugno 2010
. Un rovescio steccato da Samantha Stosur consegnava a Francesca Schiavone uno storico e leggendario Roland Garros. Quel trionfo ha inciso su pietra la realtà: il tennis italiano è donna, fortissimamente donna. Tra gli uomini non abbiamo un top 10 da trent’anni e soltanto di recente Andreas Seppi e Fabio Fognini ci hanno riportato tra i top-20. Nel frattempo, le ragazze si sono impossessate del libro dei ricordi. La Schiavone si è arrampicata al numero 4 WTA (proprio come Panatta), la Pennetta è stata top 10 in singolare e numero 1 in doppio, mentre i successi di Roberta Vinci e Sara Errani (sia in singolare che in doppio) sono talmente di routine da non fare quasi notizia. 'Sarita' è poi entrata tra le prime 10 in singolare grazie alla finale al Roland Garros e si è qualificata per due anni di fila ai WTA Championships. Una realtà talmente consolidata che i giornalisti non sanno più che titoli inventarsi, soprattutto durante i tornei del Grande Slam. “Ci salvano le donne” “Le donne ci tengono a galla”, con varie declinazioni sul colore rosa e i gonnellini. Quante volte li abbiamo letti? E quante volte li leggeremo ancora? Ma se andiamo più in basso e scrostiamo la vernice patinata della Fed Cup, troviamo una realtà analoga? Qual è lo stato della donna nel tennis italiano? Per una Fed Cup che luccica ci sono altrettante maestre, dirigenti o semplici giocatrici? E il maschilismo insito nella cultura italiana si è spinto fino al mondo del tennis? L’Italia non arriva al “machismo” sudamericano, ma se siamo arrivati a sdoganare il concetto di “Quote Rosa” significa che il maschilismo è vivo e presente. “Io sono favorevole alle quote rosa – racconta Elena Pero, una delle pochissime telecroniste donne nel panorama della TV italiana – perché lo squilibrio a favore degli uomini non è ammissibile. In un modo o nell’altro, l’argomento deve essere affrontato. E le quote rosa possono essere un metodo efficace”. Non è dello stesso parere Loretta Andreatta, ex-presidentessa della Società Tennis Bassano, uno dei club più in vista dello stivale. “Lo dico subito: non mi piace il concetto di quote rosa, perché le qualità devono essere premiate a prescindere dal sesso”.
 
Insomma, nel piccolo mondo del tennis italiano c’è maschilismo? “Penso di si – attacca Barbara Rossi, ex n. 76 WTA e attuale top coach nonché telecronista di Eurosport – gli uomini hanno una larga parte del settore. L’insegnante femminile fa fatica ad emergere. Il tennis è uno sport dove gli uomini hanno avuto più successo: le cose sono cambiate solo di recente”. Laura Golarsa è uno dei rarissimi casi di donne che allenano tennisti uomini. Quartofinalista a Wimbledon nel 1989, lavorava con il padre di Emanuele Molina e da lì si è creato un gruppo che oggi comprende anche Alessandro Bega, Davide Della Tommasina e Riccardo Sinicropi. Partendo da una semplice scuola tennis, la Golarsa ha portato 6 giocatori nel ranking ATP. “Io faccio parte di una categoria di donne che sono state fortunate e – perché no – brave, riuscendo ad andare avanti. Personalmente non ho avuto nessun problema, ma è vero che a parità di parametri per l’uomo è più facile. In 14 anni di carriera ho giocato 40 Slam in tabellone: se fossi stata un uomo sarei stata trattata con un occhio di riguardo…” Ciò che manca, insomma, sono i riconoscimenti. Nell’attività di tutti giorni sembra che non ci siano problemi. Se chiedi un episodio, un aneddoto, un ricordo in cui l’essere donna è stato uno svantaggio, gli sforzi mnemonici sono inutili. Vale anche per Cristina Gnocchini, uno dei personaggi più dinamici dell’ambiente. Con la sua società di eventi e comunicazione si è lanciata nel mondo del tennis nel 1997, organizzando alcuni tornei ITF fino a spopolare in buona parte dei challenger italiani. “Io non ho mai avuto difficoltà come donna. Ho incontrato ostacoli “normali”, relativi alla difficoltà di ritagliarsi uno spazio. Non è facile lanciare un’attività di libera e piccola imprenditoria quando i circoli non hanno grosse disponibilità economiche. Anzi, essere donna mi ha aiutato. Ho iniziato con i tornei femminili, poi sono stati quelli maschili a cercarmi. Essere donna addolcisce l’impatto, rende più gestibili le trattative. Vale lo stesso nei rapporti con i tennisti: io cerco sempre di essere cordiale, di avere un sorriso per tutti, e questo aiuta con i tennisti più indisciplinati. Nei tornei challenger, il ragazzotto tende e non rispettare certe dinamiche. E’ criticone e petulante, ma di fronte a una ragazza tende a essere più tranquillo. E poi io so farmi rispettare”. Episodi antipatici non ce ne sono. “Ma no! Al massimo può capitare che qualche tennista si infili nel mio ufficio, mi veda e dica: “Dov’è il direttore del torneo?” e io gli risponda: “Ce l’hai davanti””. Secondo la Gnocchini, tuttavia, c’è molto maschilismo. “Il mio caso non fa testo. Statisticamente, chi ha potere decisionale è quasi sempre un uomo”. Il caso di Loretta Andreatta è doppiamente interessante perché è quasi unico. Quando le si chiede se conosce qualche altra donna presidentessa di club, risponde con certezza. “No, non ne conosco. Ci sono casi di consiglieri donne, ma è tutta un’altra cosa. Il presidente ci mette la faccia e ha importanti responsabilità”. La Società Tennis Bassano ha organizzato una Fed Cup, ospita un torneo Future e si è appena laureato Campione d'Italia grazie al successo in Serie A1. Insomma, non è un circoletto di provincia. E gestirlo non è facile. La Andreatta lo ha fatto per 6 anni. “Essere donna mi ha creato dei problemi – dice la Andreatta – ci sono tanti pregiudizi, difficili da abbattere. Nel tennis c’è tanto maschilismo come in qualsiasi altro settore. La dirigenza di un circolo sportivo è sempre stata per gli uomini, non si sa perché. La donna è ancora vista come mamma e “angelo della casa”. E’ una questione culturale e logistica: l’uomo ha più tempo libero e lo può dedicare ad attività come questa”. La pensa così anche Laura Golarsa, doppiamente fiera dei suoi risultati anche in virtù del ruolo moglie e mamma. “Per un coach uomo è certamente più facile andare in giro per il mondo anche dopo la paternità”. C’è un uomo che conosce come pochi la realtà del tennis femminile: è Francesco Elia, marito e coach di Silvia Farina, ex numero 11 WTA. Secondo Elia, il maschilismo nel tennis è specchio della cultura. “I successi delle nostre ragazze hanno dato maggiore interesse al tennis femminile, ma non quanto avrebbero meritato. Sinceramente non ho visto un grande cambiamento. La Federazione cerca di promuovere il tennis femminile, ma è soprattutto una questione culturale. L’Italia è un paese dove c’è molto più interesse per le vicende degli uomini, nonostante atlete come Schiavone, Vezzali e Pellegrini. La nostra cultura è proiettata verso il maschio, probabilmente è un retaggio del calcio. Se l’impresa della Schiavone fosse stata compiuta da un uomo, saremmo ancora qui a fregarci le mani”. La (scarsa) considerazione per il trionfo parigino della Schiavone non va giù alle donne del nostro tennis. Dopo il trionfo a Parigi, la “Schiavo” ha visto moltiplicare le richieste di interviste, si è presa qualche prima pagina ed è finita a “Porta a Porta” da Bruno Vespa. Ma la eco si è spenta piuttosto rapidamente. Francesca può tranquillamente andare in giro senza bisogno di bodyguard. “Se la Schiavone avesse vinto il Roland Garros maschile sarebbe stata trattata come il Papa – dice la Golarsa – credo che la grande differenza tra tennis maschile e femminile stia soprattutto nell’interesse della gente. A livello pratico non ci sono grossi ostacoli”. Anche Elena Pero la vede così: “Ah, se la Schiavone si fosse chiamata Francesco l’interesse sarebbe stato 10 volte superiore. Non trovo che sia giusto, anche perché ci sono tante discipline dove lo sport femminile sa offrire lo stesso spettacolo, se non migliore, di quello maschile”. La Pero ha saputo inserirsi in un settore iper-maschile come quello dei telecronisti. Ammette che non è stato facile, però “Il vero grande ostacolo è il calcio. Non oso immaginare cosa direbbero i fanatici di calcio a una telecronista donna. Negli altri sport c’è più tolleranza, e nel tennis è stato ancora più facile perché prima di me c’è stata un’apripista come Lea Pericoli”.

 
 
Le donne vincono, le donne sono brave, le donne sono un esempio. Lo scriviamo spesso, ma la gente lo percepisce? Rita Grande è convinta di si. Insieme a Silvia Farina, la napoletana ha dato il via alla generazione che ci ha portato in cima al mondo. Numero 24 del mondo, vincitrice di tre titoli WTA, ha raggiunto gli ottavi in tutte le prove del Grande Slam. Oggi è responsabile delle Under 14, fa la telecronista a tempo perso e conosce bene l’attività di base in virtù del ruolo di organizzatrice. “Ritengo che il tennis femminile sia visto in modo diverso rispetto a qualche anno fa. Le vittorie individuali e in Fed Cup hanno garantito una visibilità senza precedenti. In Italia c’era grande differenza tra uomini e donne, ma le vittorie hanno ribaltato le cose. D’altra parte per richiamare l’attenzione bisogna vincere. Sapete una cosa? Se vai nei circoli, tutti sanno chi sono Pennetta o Schiavone mentre balbettano se chiedi chi è il numero 1 italiano”. Se c’è un luogo dove il maschilismo non è avvertito sono proprio i circoli. Basti pensare che il calendario ITF propone diversi eventi femminili, anche se qualche mese fa è dolorosamente scomparso il torneo WTA di Palermo, unico evento del circuito maggiore a giocarsi in Italia oltre agli Internazionali di Roma. Tra i circoli che puntano di più sulle donne c’è la Società Canottieri Casale, che per anni ha organizzato un torneo ITF ed ha un team femminile di Serie A2 “Da noi la presenza femminile attiva nello sport è intorno al 30% – racconta il presidente Stefano Bagnera – la presenza maschile è maggiore ma non è molto marcata. Anche a livello di gare a squadre c’è un vivo equilibrio. In totale abbiamo 10 squadre, di cui 4 femminili”. A livello organizzativo, Casale ha scelto di puntare sulle donne per una questione “umana”. “I tornei ITF non prevedono l’ospitalità – continua Bagnera – però potevamo dare l’ospitalità gratuita presso alcune famiglie. Le donne sono più educate, tranquille, amichevoli. Le ospitalità sono sempre state fonte di relazioni e amicizie. Basti pensare alla Pavlova, giocatrice con cui ci sentiamo ancora oggi, a 10 anni di distanza”. Punta forte sulle donne anche il Tennis Club Mestre: non solo un team di A1 femminile, ma anche un torneo da 50.000 dollari che ha già vissuto ben 11 edizioni. “Durante il torneo le ragazze sono meno distaccate degli uomini – racconta Pasquale Marotta, deus ex machina dell'evento – vivono il club, parlano con i nostri giovani, sono più disponibili. Rendono una festa la settimana del torneo”. La presenza femminile è importantissima anche a livello didattico, sia a Casale che a Mestre. In entrambi i casi la “quota rosa” si attesa sul 50%. “Abbiamo due maestre su un totale di quattro – dice Bagnera – sono preferibili soprattutto nei rapporti con i bambini, hanno modi gentili e una sensibiltà spiccata. Trovo che il ruolo delle donne nel tennis sia meritatamente importante”. “La presenza femminile a Mestre – continua Marotta – è del 50% su 250-300 soci, mentre nelle gare a squadre abbiamo addirittura più squadre femminili, 6 contro 5. A livelli dirigenziale abbiamo sei consiglieri, tra cui due donne. Ma solo perché non c’erano altre candidate”.
 
C’è una domanda ricorrente: come mai vinciamo solo tra le donne? La differenza di rendimento tra ragazzi e ragazze è troppo marcata per essere spiegata con la casualità. Secondo Barbara Rossi: “Gli uomini hanno il problema di una maggiore selezione. Il calcio fagocita i maggiori talenti, quindi non sempre i migliori finiscono a giocare a tennis. Per le donne è diverso, c’è meno concorrenza di altre discipline. E poi credo che la donna si ponga degli obiettivi più importanti. Prendi la Schiavone: aveva un obiettivo altissimo, che sembrava folle…e invece alla fine l’ha raggiunto. La stessa Pennetta ha saputo reagire a un momento difficile. Insomma, hanno più testa”. Molto lucida la disamina di Elena Pero: “Bisogna ammettere che la concorrenza è un filo più bassa, ma credo che la differenza sia a livello di mentalità. Le nostre ragazze si sono date da fare, si sono impegnate e ingegnate per raggiungere gli obiettivi. Sono più disposte a fare sacrifici. Le tenniste italiane sono l’esempio che il discorso della “fame” vale fino a un certo punto. Se guardi il ranking ATP, vedi che molti top-players arrivano da paesi borghesi o medio-borghesi. La voglia di arrivare, dunque, ti viene da dentro. Le nostre ragazze sono così: si stimolano, si fanno concorrenza e non si accontentano. Invece mi sembra che i maschi non abbiano la stessa ambizione. Rispecchiano l’italiano medio”. Francesco Elia tiene a scalfire il luogo comune secondo cui per le donne è più facile emergere. “Ok, la qualità dei Fab Four non è paragonabile a quella delle prime quattro, ma ognuno affronta le difficoltà che incontra. Fare paragoni non ha senso. Le ragazze italiane si sono messe in gioco con tanto impegno, hanno cercato di raggiungere i limiti. Ci sono riuscite, e questo le ha stimolate reciprocamente. Non voglio dire che gli uomini non lo facciano, ma la competitività è altissima anche tra le donne. Se non sei al top, capita tranquillamente che una top 10 perda dalla numero 100”. Secondo Laura Golarsa, le ragioni sono anche culturali e di troppe aspettative. L’Italia aspetta da anni il cavallo vincente, scaricando troppa pressione sui giovani. “Diamo troppa importanza alla vittoria del maschio giovane pensando che sia il salvatore della patria. Quanti ci sono passati? Natali, Virgili, Della Tommasina, Trevisan e altri ancora…focalizziamo troppo l’attenzione su questi ragazzi. Per la donna non è così, ed è un vantaggio enorme. Burnett, Giorgi e la stessa Dentoni non hanno avuto questa pressione e possono giocare più tranquille. Per emergere, la donna è costretta a fare risultati”. Secondo la Golarsa, oggi Gianluigi Quinzi è più importante di Fabio Fognini. “E questo non va bene. Anzi, trovo che Fognini sia sottostimato. Era nell’occhio del ciclone sin da ragazzino, ma è riuscito ugualmente ad arrivare. Oggi basta vincere 3 partite ed hai già il sito internet. Le donne hanno meno pressione, e questo diventa un enorme vantaggio”. Adesso è un momento d’oro, ma il tennis italiano femminile a cosa va incontro? Francesco Elia, che insieme a Silvia Farina ha seguito per anni Martina Caregaro (classe 1992, intorno al n. 400 WTA) non nasconde un briciolo di preoccupazione. “Bisognerà rimboccarsi le maniche. Le giovani ci sono, ma le generazioni che verranno dovranno confrontarsi con campionesse di alto livello.  
Non è solo una questione di exploit, ma anche di longevità ad alti livelli. Giocatrici come Schiavone e Pennetta sono forti da oltre 10 anni. Spero di sbagliarmi, ma non vedo così competitiva la generazione che sta per arrivare. Spero possano andare meglio le ragazze nate dal 1995-1996 in poi. Rosatello, Marchetti e Pairone hanno vinto gli Europei Under 16”. Rita Grande conosce bene le nostre giovani, essendo responsabile delle Under 14. E’ ottimista, ma lancia un allarme: “Abbiamo delle under 14 che giocano molto bene, ma l’attività è troppo dura. Ci sono ragazzine che giocano 12-13 tornei all’anno, di cui 7-8 all’estero. Questo è professionismo precoce: gli enti che gestiscono il tennis a livello internazionale dovrebbero rivedere l’attività. Non esiste che delle ragazzine studino da privatista già in prima o seconda superiore. Oggi chiunque può fare attività internazionale, mentre fino a qualche tempo fa erano le federazioni e selezionare i giocatori. Credo che a 14-16 anni una ragazza debba stare a casa, andare a scuola e allenarsi con il proprio maestro. Se sarà brava, ci sarà tempo per viaggiare e dedicarsi al tennis”. Attualmente il tennis femminile italiano non ha un centro tecnico dedicato. Qualche anno fa, si ipotizzò la creazione di un Centro Tecnico Femminile a Formia. Il progetto si arenò rapidamente, limitandosi a qualche visita esplorativa. Tirrenia ha ospitato le ragazze fino al 2007, quando il Centro è diventato solo maschile. Lo scorso autunno un paio di tenniste (Silvia Albano e Jasmine Paolini) hanno rimesso piede a Tirrenia, ma non esiste una progettualità dedicata. “Funziona diversamente rispetto ai miei tempi – continua Rita Grande – prima c’era il Centro Femminile a Latina. I tecnici selezionavano le nove migliori giocatrici e ci si radunava lì. Erano scelte più “aggressive”, in cui si faceva una forte selezione alla base. Oggi si cerca di aiutare più ragazze, anche in periferia, con l’arrivo dei PIA e dei centri periferici. Sinceramente non so se sia un bene o un male”. Di certo le attuali top players azzurre non sono il frutto del lavoro federale: Pennetta ed Errani hanno dovuto emigrare, la Schiavone è diventata una giocatrice “vera” con Daniel Panajotti (anche se l’aiuto dei tecnici federali Furlan e Barazzutti è stato cruciale per farle compiere il definitivo salto di qualità). Attualmente la FIT prevede dei contributi sia per i ragazzi che per le ragazze in base a parametri di semplice meritocrazia. “Di certo quello che arriva dalla federazione non è sufficiente – dice Francesco Elia – ma l’attività è molto esosa, e investire su un giovane comporta dei rischi importanti. La FIT non si sobbarca questo per intero, ma è comunque presente. La Caregaro, per esempio, non si spesa tutta l’attività. Non è assolutamente una critica, ma una presa di coscienza. Se dessero 30-40.000 euro l’anno potrebbero sovvenzionare 3 o 4 tennisti. Comunque adesso le giocatrici sono più seguite: spesso in giro per il mondo c’è il medico o il fisioterapista, anche se ovviamente c’è chi se li porta autonomamente”.
 
 

Il tennis è costoso ma può anche essere molto remunerativo. Giunte ad alti livelli, si possono guadagnare cifre importanti. Se osserviamo la top 10 delle sportive più pagate al mondo, troveremo ben 6 tenniste. Eppure le donne si battono da anni per la parificazione dei prize money. In diversi tornei ci sono riuscite, ma il dibattito se sia giusto o meno è ancora molto acceso. Secondo Elena Pero non dovrebbe nemmeno esistere: “Se l’interesse e la spettacolarità che generano sono uguali agli uomini, è giusto che sia così. L’impegno che richiede la carriera nel circuito WTA è esattamente lo stesso, quindi non vedo perché debbano esserci distinzioni. E’ anche una questione di principio: se si deroga dal principio, allora non vale più niente”. La pensa così anche Barbara Rossi: “Vale il discorso dello spettacolo: se le donne creano interesse è giusto che guadagnino bene. Sinceramente mi sembra che ci sia un buon interesse e che in TV si veda parecchio tennis femminile. Adesso è un momento di passaggio, ma a breve ci saranno tante nuove sfide e belle rivalità. Credo che la parità sia giusta”. Più “globale”, il ragionamento di Rita Grande: “Credo che sia giusto avere la parità di montepremi. La parità deve essere raggiunta nel mondo del lavoro in generale. A parità di lavoro, l’uomo viene pagato di più. Non è giusto. Spero che lo sport possa essere l’apripista per una corretta evoluzione della società”.  Il ruolo di organizzatrice fa vedere a Cristina Gnocchini le cose da una doppia prospettiva: “A livello sportivo-atletico credo che le donne meritino un riconoscimento identico. Un campione percorre la stessa strada, lo stesso tour e le stesse spese di una campionessa. Sul piano tennistico è giusto che ci sia la parità, ma su quello organizzativo bisogna fare i conti con l’atteggiamento di sponsor e pubblico. Il tennis femminile non si vende, non si propone e non entusiasma come quello maschile. A San Benedetto del Tronto c’è un bel torneo challenger: se portassi un femminile spenderei la metà, ma avrei un terzo dell’interesse. Il marketing va in questa direzione e bisogna prenderne atto”. Laura Golarsa ha un’idea affascinante, ma di difficile applicazione: i compensi dovrebbero essere stabiliti in base al periodo storico. Secondo lei ci sono stati momenti in cui il tennis femminile valeva più del maschile, e in quel caso avrebbe meritato riconoscimenti ancora migliori. “Se lo sport tira, a prescindere dal sesso, è giusto retribuirlo. Sono gli organizzatori che devono capire e stabilire se le donne “tirano” quanto gli uomini. Oggi è un momento particolare, in cui il numero 100 ATP vale più della 100 WTA, ma c’è stato un periodo in cui il numero 4 ATP era Jonas Bjorkman e la numero 20 WTA una certa Zina Garrison. Ognuno tira acqua al suo mulino, ma lo sport è marketing e business. E’ lo stesso concetto delle esibizioni: se Federer e Nadal fanno un esibizione, è giusto che guadagnino più di un Garcia Lopez? Ovviamente si. E se l’esibizione di Milano, anziché le Williams, avesse avuto la Cibulkova e la Petrova, avrebbe avuto lo stesso interesse? Ovviamente no”.
 
Che gli uomini siano più importanti a livello di testimonial lo confermano gli investimenti delle aziende. Parola di Giovanni Calori, direttore commeciale di Babolat italia, azienda che nel 2010 ha avuto contemporaneamente due numeri 1: Rafael Nadal e Caroline Wozniacki. “La testimonial donna? Dipende dalla sua qualificazione – attacca Calori – se paragoniamo Nadal con Wozniacki, il rapporto era 2 a 1 a favore dell’uomo. Trattare con l’entourage di una donna è più facile perché semplicemente costa meno. Il discorso cambia a livello nazionale: vincendo il Roland Garros, la Schiavone ha generato un grosso interesse nei confronti del marchio. A parità di risultati, il maschio ha una maggior potenza. Di certo in Italia le donne hanno un grosso valore per Babolat. Basti pensare alla Errani, che ci ha portato dei grossi benefici sul piano dell’immagine ancora prima di avere un accordo siglato”. Dal punto di vista del marketing, tuttavia, il tennis sta vivendo un momento particolare. Possiamo domandarci se a livello commerciale valga di più la numero 10 WTA o il numero 30 ATP, ma si tratta di testimonial secondari. “Non c’è dubbio. A livello italiano può contare di più la numero 10 WTA, ma sono entrambi offuscati dai primi quattro del mondo. Attualmente Djokovic, Nadal, Federer e Murray veicolano il 95% del mercato. Per questo possiamo dire che la Schiavone ha creato interesse per Babolat, ma è difficile capire se abbia generato delle vendite. In un certo senso è stata “sfortunata” perché usa lo stesso attrezzo di Nadal, personaggio in grado di offuscare chiunque. Basti pensare che a livello mondiale la Babolat Aeropro Drive rappresenta il 15% del mercato. E’ la racchetta di Nadal e Schiavone, ma secondo voi chi ha generato queste cifre?”
 
Il viaggio nel mondo del tennis femminile ci ha insegnato che le donne non hanno grossi problemi nello svolgimento della loro attività (salvo casi particolari come quelli di commentatrice, presidentessa, organizzatrice, ruoli storicamente destinati agli uomini). Il maschilismo c’è, è latente, ma non rappresenta un ostacolo per una ragazza che ha voglia di emergere. Il problema sta nel riconoscimento del duro lavoro. Per costruirsi uno spazio, le ragazze italiane hanno dovuto raggiungere e superare i loro limiti. Altrimenti sarebbero rimaste nel limbo del semi-anonimato. E’ giusto l’augurio di Rita Grande: lo sport potrebbe essere l’apripista per creare una società più giusta, dove le discriminazioni di genere vengano finalmente scavalcate per lasciare spazio alla meritocrazia. La cultura e i pregiudizi sono difficili da abbattere, ma realtà professionali come Elena Pero, Cristina Gnocchini e Loretta Andreatta sono l’esempio di come la donna possa operare con successo anche nel mondo del tennis, in ruoli solitamente destinati agli uomini. Siamo messi meglio che in altri settori: perché non sfruttare l’inerzia positiva?

LA DONNA NEI NEGOZI DI TENNIS
 
Un ottimo indicatore per valutare il "peso" del tennis femminile sono le vendite nei negozi. Per capire l'effetto-donna, abbiamo chiesto il parere di Fabrizio Valle e Paolo Moro, responsabili di due negozi top di settore. "Il prodotto donna ha un esito altalenante – dice Valle, responsabile di 4 punti vendita – nel negozio più grande vendiamo molto materiale femminile, ma credo sia così perchè è difficile trovarlo in giro. Le aziende non ne producono molto, il materiale "bambina" è quasi impossibile da trovare. Noi ne abbiamo molto e per questo vendiamo, ma il prodotto femminile non supera il 20% delle nostre vendite". Appena diverse le sensazioni di Paolo Moro, titolare di "Cà Sport" a Rivarolo Canavese: "Il prodotto donna è in crescita, anche se abbiamo poche praticanti nella fascia d’età dai 18 ai 26 anni. I successi del le nostre tenniste hanno riavvicinato al tennis le donne dai 35 ai 55 anni, "scippate" alla palestra. Il peso vendita del prodotto femminile oscila intorno al 30%. Un altro indicatore sono le incordature, e lì scendiamo al 20% ma solo perchè le donne rompono meno le corde". Ma quanto conta la testimonial donna? "Mica tanto – dice Valle – l'unica che mi chiedono è la Sharapova, le altre meno. Piacevano i completi della Pennetta quando vestiva Tacchini, mentre ora "tira" di meno, forse perchè gli abiti Adidas sono meno leziosi. C'è anche la Ivanovic, ma è poco conosciuta al di fuori dei super appassionati". "La testimonial donna ha due problemi – aggiunge Moro – il primo è che non vende sugli uomini. Prendi Yonex: fabbrica ottimi telai e investe molto sulle donne. Ci sono state finali Slam tutte Yonex, ma questo non si è tradotto in vendite. L'altro problema riguarda gli abiti: non tutte possono permettersi gli abitini della Sharapova, allora ripiegano sulle seconde linee. Secondo me i 3 brand principali fanno modelli poco vestibili. Guardatevi in giro: troverete molti ragazzi vestiti come Federer, Nadal o Djokovic. Difficile che una donna vesta come Sharapova o Azarenka".