Josè Perlas racconta alcuni segreti del lavoro con Fognini: “Quando l’ho conosciuto, pensava di non poter raggiungere certi livelli. Stiamo lavorando per battere anche i migliori”.
Fabio Fognini al lavoro con Josè Perlas
TennisBest – 10 aprile 2014
Non sbaglia un colpo. Nella sua carriera di coach, Josè Perlas ha tirato fuori il massimo da quasi tutti: Carlos Moya, Albert Costa, Juan Carlos Ferrero e Nicolas Almagro. Ha avuto qualche problema con Guillermo Coria, ma lo ha preso in una fase in cui l’incubo dei doppi falli era già iniziato. Un paio d’anni fa, il coach spagnolo si è seduto all’angolo di Fognini. Ha sempre creduto in lui, altrimenti non ci avrebbe mai messo la faccia. E adesso che Fabio è a ridosso dei top-10, già migliore italiano degli ultimi 30 anni, sta raccogliendo i giusti riconoscimenti. Perlas ha rilasciato un’intervista al programma radiofonico spagnolo Planeta Tenis, ascoltabile a questo indirizzo. Ecco le fasi salienti.
Qual è il cambio più importante effettuato da Fognini negli ultimi due anni?
Ha imparato a mettere più impegno nella professione che si è scelto. Questo ha permesso a tutti gli aspetti di migliorare e cogliere determinati benefici.
In un’intervista concessa al sito dell’ATP aveva detto che Fognini non l’aveva colpita per il talento, ma perché soffriva per questo. Cosa intendeva?
Rispondo in modo superficiale perché non mi piace entrare in argomenti personali del giocatore e del nostro lavoro quotidiano. Vorrei che la gente andasse oltre nelle valutazioni e non si limiti alle reazioni che ogni tanto gli capitano….e che gli capitavano molto spesso in passato.
Ma cosa significa che Fognini soffriva?
In un mio intervento su un blog, che intitolai “Quello che l’occhio non vede”, ho scritto che vidi un ragazzo sofferente perché credeva di non poter arrivare, o di non saper arrivare. Soffriva perché tutti si attendevano molto da lui a causa del suo talento.
Il talento non è tutto…
E’ importante averlo perché facilita le cose, in certi momenti fa trovare una soluzione d’emergenza con più rapidità. Però non si può vivere solo con quello. Fabio aveva molti altri aspetti mai approfonditi. Per questo non riusciva ad aprire una breccia come invece sta succedendo ora. Ha lavorato molto e bene con diversi allenatori, di sicuro aveva ricevuto ottimi consigli. Però non trovava il modo per trasferire certi insegnamenti nella realtà. La prima cosa che abbiamo fatto è stato mettere ogni cosa al suo posto in modo che vedesse la luce in fondo al tunnel. A partire da lì, ha evoluto alcuni aspetti personali che lo stanno aiutando.
Quest’anno ha avuto partite difficili contro Djokovic, Nadal, Ferrer….
Tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014 li abbiamo affrontati spesso. Sono tra quelli che non ha mai battuto. Il nostro obiettivo è rompere questa barriera. Stiamo lavorando per trovare la strada per riuscirci. A loro si è aggiunto anche Dolgopolov, che ha battuto Fabio per due volte e sta giocando a livello da top-10.
Contro Djokovic e Nadal non ha avuto il giusto atteggiamento. Sembrava disinteressato, senza voglia di giocare.
All’Australian Open abbiamo vissuto la sfida contro Djokovic come un gran regalo. Pochi giorni prima eravamo indecisi se andare o meno perché temevamo che avrebbe potuto aggravare un problema alla gamba sinistra emerso a Chennai. Alla fine siamo andati, e quando è stato il momento di affrontare Djokovic è stato difficile preparare la partita nel modo giusto. Fabio non aveva energia sufficiente e sin dall’inizio era chiaro che non avrebbe avuto chance. Purtroppo l’ha presa nel modo più rilassato.
E a Miami contro Nadal?
Al turno precedente aveva avuto un match molto duro contro Roberto Bautista Agut, dove all’inizio aveva chiamato il trainer perché non sapeva se andare avanti o meno. Per fortuna è andato avanti, ma aveva un problema intercostale che generava un po’ di dolore su alcuni colpi. Contro Nadal ha provato, ma non è riuscito a gestire certi momenti. Ci sono stati momenti in cui sembrava a posto, ma in realtà non era in condizione ideale.
La gente ricorda queste partite…
Restano più nella memoria rispetto a altre. Lo scorso anno ha avuto un gran periodo, vincendo tornei, giocando con costanza e il giusto atteggiamento. Sta facendo cose di ottimo valore, però l’immagine resta. Tuttavia certe cose avvengono sempre meno.
Adesso in Coppa Davis ha superato un osso duro.
Battendo Murray ha rotto una barriera, ma presto ne romperemo altre. Fabio ha già battuto Berdych, Wawrinka, Almagro e una buona serie di ottimi giocatori. C’è la speranza che possano aprirsi certi spazi. Gli unici tre giocatori che non ha mai battuto sono quelli citati prima: Nadal, Djokovic e Ferrer.
Ha molta pazienza con lui?
Si, ma è così con tutti. Fa parte del ruolo di coach a questi livelli. Questi giocatori hanno le loro difficoltà. La parte principale del nostro lavoro è che le informazioni arrivino e che siano trasferite in partita. A volte ci vuole più tempo, a volte meno. Ma su questo non sono solo: c’è un team di preparatori atletici e psicologi.
Perché è complicato stare tanti anni con lo stesso allenatore?
Credo che 2-3 anni siano un periodo abbastanza ampio, in cui c’è la possibilità di capirsi e ottenere gli obiettivi. Se non succede e non si migliora credo che una separazione non sia un dramma: semplicemente, come professionisti, cerchiamo sempre il meglio. Inoltre tutto arriva a un punto in cui ci si stanca. Può essere noioso sentire sempre le stesse cose dalla stessa persona. Alla fine non ci sono tante novità nel circuito. Ci sono diversi modi di lavorare, bisogna vedere se le informazioni arrivano o meno al giocatore.
Ci vuole pazienza per entrambi. Ultimamente si vedono tanti contratti di 2-3 mesi…
Io faccio sempre contratti annuali perché penso sia la cosa giusta. Bisogna portare a termine almeno un ciclo e poi ragionarci sopra. 2-3 mesi è un periodo di prova che non si può definire davvero credibile.
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