– “La Norvegia è più forte di quanto sembri, il numero 3 è stato 900”. Una frase sussurrata a bassa voce, in inglese, sulle tribune deserte del Campo Centrale del Centro Tennis Cassa di Risparmio, strada di Montecchio, San Marino. È la settimana del Gruppo 3 di Coppa Davis, zona Europea, il quarto d’ora di gloria di quelle tredici nazioni dimenticate dal Dio della racchetta, che si trovano una volta all’anno in sede unica, a giocarsi i due posti per il raggruppamento superiore. Gente che la Davis, quella vera, la vede in tv come tutti i comuni mortali, e si stupisce di trovare in campo raccattapalle e giudici di linea. La formula è semplice: quattro gironi all’italiana, le migliori si affrontano in semifinale, le altre rimandate all’anno successivo. Da qui non si retrocede. O meglio, non si può retrocedere, perché dal fondo non si può più cadere. Per sveltire l’agonia ogni sfida ha tre incontri e non cinque, tutti in una giornata, tutti al meglio dei tre set. Così, capita che l’intero confronto Georgia-Albania duri 2 ore e 4 minuti: 6-0 6-0 al cubo e tutti a casa. In campo c’è anche Nikoloz Basilashvili, reduce dal terzo turno a Wimbledon partendo dalle qualificazioni. Come premio la sua Federazione l’ha spedito nel Girone dell’Inferno della Coppa Davis. Nel 2007 la Georgia giocava nel Gruppo 1 contro Djokovic e Tipsarevic, ora che potrebbero aver ritrovato un giocatore competitivo vogliono sfruttarlo per tornare in alto. “È la mia prima volta in Coppa Davis – racconta – e sono felicissimo di rappresentare il mio paese. In Georgia la gente si aspetta molto da noi, il tennis sta diventando più popolare e spero che il mio risultato a Wimbledon possa aiutare i giovani a scoprire questo sport. Ha avuto grande risonanza, caricando anche la squadra in vista di questo impegno. L’obiettivo è tornare subito nel Gruppo 2”. Ce l’avrebbero fatta due giorni dopo, battendo per 2-0 l’Estonia di Jurgen Zopp, grazie anche al numero due Alexandre Metreveli, il cui nonno arrivò in finale a Wimbledon nel 1973, approfittando del celebre boicottaggio. A lui servirebbe ben altra emorragia, ma comunque ha appena vinto un paio di Futures. E chissà se avesse il dritto del connazionale Giorgi Javakhishvili: condizione fisica da amante dei fast food e aspetto che metterebbe in allerta gli aeroporti di mezzo mondo, ma braccio magico.
Quando la impatta da fermo fa i buchi per terra, senza fatica, nella metà campo dell’islandese Birkir Gunnarsson, uno che i 38 gradi di Fonte dell’Ovo non li aveva mai visti prima, così come un coach in grado di dargli due dritte sul servizio. Seduto in panchina c’è suo fratello Magnus, con cui condivide i genitori e pure il numero di tornei internazionali giocati nella vita: zero. È lui il vero protagonista del match. Prima per l’outfit intelligente, felpa e pantaloni della tuta, poi per la decisione di improvvisarsi fotografo nel secondo set, quando nel bel mezzo di un game estrae l’iPhone per scattare delle foto al fratello. Forse non ci crede di trovarlo avanti 2-0, ma sei game più tardi gli torna tutto più chiaro. Scocca l’ora del numero due: Rafn Kumar Bonifacius, origini indiane, discreta somiglianza con Rafael Nadal e borsone Wilson di cinque anni prima. Troppi? Sempre meglio di quello che il borsone neanche ce l’ha, e si accontenta di due racchette, infilate nello zainetto a mo’ di ragazzino della Sat.
Sul campo accanto gioca Genajd Shypheja, numero due della formazione albanese. Studia all’università sportiva di Tirana e sogna un futuro nel mondo dello sport. Qualche volta è finito anche in televisione, malgrado dalle nostre parti farebbe fatica a vincere un torneo di terza categoria. Aspetta di iniziare il riscaldamento, perché l’avversario si è presentato in campo con una t-shirt con sulla schiena sia la scritta Malta sia la croce simbolo del Paese. Il regolamento non lo permette e il giudice di sedia lo obbliga a cambiarla. Shypheja se la ride, anche se indossa la maglia di una marca e i calzoncini di un’altra. Rimarrà l’unico momento felice del suo incontro: 6-0 6-0 in 46 minuti, fra doppi falli, dritti lisciati e smorzate nel suo campo, tutto rigorosamente da quattro metri dietro la riga di fondo. Un vizio condiviso col connazionale Rai Pelushi, che ha addirittura una pagina Facebook da quasi mille fans, dove snocciola tutti i suoi risultati da under 12 a oggi. “Sono sicuro che con il duro allenamento, la mia potenza e il mio talento, rappresenterò l’Albania in tutti gli eventi del mondo”, scrive. Giusto un tantino ottimista. La sentenza ce la regala un giudice di linea all’uscita dal campo: “ha fatto sembrare l’altro un fenomeno”. Per la cronaca l’altro è Matthew Asciak, maltese, best ranking 887. Impossibile non chiedere un’opinione al capitano albanese, Fatos Nallbani, professore di educazione fisica con figlioletto al seguito. Non parla inglese, un suo giocatore gli traduce la domanda: “Come ci si sente a capitanare una nazione senza giocatori nel ranking mondiale?”. Per la risposta non ha bisogno d’aiuto. Gli basta un gesto. Allarga le braccia ed è sufficiente a render chiaro il pensiero: “È quello che passa il convento”. Chiuderanno al tredicesimo e ultimo posto, ma non sono i peggiori d’Europa. Nel ranking per nazioni Andorra è un posto dietro, però non gioca da 3 anni.
Un centinaio di metri più in là, oltre il parcheggio e la Casa del Calcio, ci sono altri tre campi ricavati in una vallata. In corso i primi singolari di Liechtenstein-Montenegro e Norvegia-Armenia. Cade l’occhio sul numero due del Liechtenstein, al secolo Gian-Carlo Besimo. Ha 29 anni ed è all’esordio in Davis, ma sembra un attempato maestro di club, coi fantasmini al posto del classici calzini da tennis e in pugno la Wilson K-Factor con cui Del Potro vinse lo US Open nel 2009. Sembra passata un’eternità. “Ma il primo set l’ha giocato bene” racconta Ljubomir Celebic del Montenegro. Lui nel Gruppo 3 si è fatto tutta la gavetta: è entrato nel team di Davis nel 2010 e, passo dopo passo e grazie al ritiro degli altri giocatori, ne è diventato il numero uno. “Da quando gioco la Davis, credo che questo sia l’anno con il livello medio più alto”. Suo cugino Stevan Jovetic è emigrato a Manchester per difendere i colori del City e farsi ricoprire d’oro, lui invece ormai da qualche anno fa la spola fra le due sponde del fiume Oglio: vive a Palazzolo (Brescia) e si allena a Cividino (Bergamo). È lì che sta provando a costruirsi una carriera, perché in Montenegro l’organizzazione è troppo amatoriale. Basta vedere il presidente, in ciabatte e con una t-shirt che ne evidenzia l’amore per la buona cucina. Invece di sedersi in panchina preferisce una sedia nel parcheggio sopra i campi, dove le piante regalano qualche spiazzo d’ombra. E quando uno degli avversari dei gemelli Savelic, impegnati nel doppio, stecca una volèe elementare, lui scoppia a ridere e gli altri lo seguono. Mica significa che non ci tengano, anzi! Semplicemente sono abituati così. “Quando ci siamo trovati prima della partenza (tre ore di macchina da Podgorica a Tirana, poi aereo per Ancona, ndr) ci ha portato le tute, dicendo: ‘Questa è la stessa che usa Federer’. Peccato che sull’etichetta ci sia scritto football. Ma sai qual è il problema? Che lui lo pensa veramente”. Tuttavia, dopo anni di contratti stipulati a suon di calzini omaggio, la situazione pare in leggero miglioramento, anche se il budget resta limitato: “Abbiamo appena scoperto che la cena non è a carico dell’organizzazione, e noi mangiamo in hotel da tre giorni: 22€ a testa per sei persone. A fine settimana saranno circa mille euro. È una spesa importante: un operaio medio in Montenegro ne guadagna 400 al mese. Stiamo decidendo chi deve andare a dirlo al presidente perché appena lo scopre gli viene un coccolone. Per venire qui ci hanno dato 300 euro a testa, andrà a finire che le cene le pagheremo con quelli”.
Eppure, oltre al viaggio, la cena è l’unica spesa a carico delle nazionali. Al resto ci pensa l’organizzazione, cioé la Federazione Sammarinese, che dopo il corteggiamento dell’ITF ha deciso di ospitare di nuovo la competizione. “Dobbiamo garantire ospitalità per cinque persone da lunedì al sabato – spiega Christian Forcellini, presidente della Federazione Sammarinese Tennis – oltre ai pranzi e a tutti i costi organizzativi, che comprendono arbitri, giudici di linea, transportation e quant’altro. Il costo complessivo è di circa 60-70 mila euro”. Mica poco, ma in parte contribuisce l’ITF. “Danno una diaria di 40 dollari per atleta, per un totale di 35-40mila euro, ma ho fatto presente che in un paese come la Macedonia possono bastare per tutto, da noi coprono circa la metà delle spese. Diciamo che questo Gruppo 3 è una sorta di raggruppamento misto che comprende professionisti ma anche dilettanti”. Ognuno, insomma, fa i conti con il movimento tennistico del proprio paese. “Il nostro? Purtroppo siamo ancora lontani dall’avere atleti professionisti, ma ci stiamo lavorando. Qualcuno ci è arrivato vicino, ma è sempre mancato un passettino”. Nel suo ufficio, all’interno del Centrale, è impossibile non scorgere i gagliardetti delle varie nazioni affrontate dal 1993, anno dell’esordio della Repubblica in Davis. “C’era ancora il quarto gruppo, con Europa e Africa insieme. Abbiamo fatto numerose trasferte in Africa, in condizioni estreme, contro nazioni che si stavano affacciando a questo mondo. Sono state bellissime esperienze di vita, abbiamo toccato con mano la povertà di altri stati nemmeno troppo lontani e ci siamo resi conto di quanto siamo fortunati ad avere una struttura come la nostra”.
Là, sul Titano, devono molto a Domenico Vicini. La sua è una di quelle storie che renderebbero orgoglioso Dwight Davis, il compianto fondatore dell’Insalatiera. Il Leone di San Marino ha 43 anni e nella vita gestisce lo storico campeggio di famiglia a Finale Ligure, dove si diletta a dare qualche lezione ai turisti nel campo del villaggio. Ma quando indossa la t-shirt biancazzurra della Repubblica si trasforma in una leggenda. Il sito della manifestazione parla chiaro: 93 incontri giocati, record assoluto, con tanto di premiazione nell’anno del centenario dell’ITF, in occasione della finale di Davis del 2013 fra Repubblica Ceca e Spagna. “Credo che gli spettatori nemmeno sapessero dell’esistenza di San Marino. Mi hanno chiamato in campo in mezzo a Nicola Pietrangeli, Manolo Santana e davanti a un pubblico da stadio. Un’esperienza indimenticabile”. E un riconoscimento giusto per chi non ha mai saltato un singolo tie. C’era nel 1993, stagione dell’esordio di San Marino in Coppa Davis, e c’è ancora 22 anni più tardi, dopo aver collezionato sul passaporto i timbri di metà terzo mondo: Zambia, Costa d’Avorio, Senegal, Uganda. La sua vita è interamente legata alla Coppa Davis. “Fin da giovane – spiega – ho capito che è il massimo per un giocatore. Ogni volta è come se fosse la prima”. Oggi però si limita alla panchina e a qualche doppio: “Ho tantissimi ricordi, a partire dal mio esordio assoluto, nel 1993, in Zambia. Partimmo in otto, quattro giocatori, capitano, presidente, allenatore e un giornalista. La notte prima del match non riuscii a chiudere occhio dalla tensione. Si giocava su un campo di fango pressato, con righe di gesso e senza reti intorno. Ai lati del campo c’erano solo dei mucchi di paglia, per non far allontanare troppo le palle. Da umile B3, battei un giocatore sloveno con ranking ATP, 6-4 al terzo. L’esperienza più difficile però è stata in Costa d’Avorio, all’equatore, col sole perpendicolare al campo. A ogni cambio di campo dovevo sostituire polsini e grip, il cemento bolliva, bisognava stare attenti a non cadere per evitare scottature. Anche in quell’occasione ho battuto qualche giocatore più forte di me. Magari da altre parti ci avrei perso, ma in quelle condizioni mi esaltavo”. E la vittoria più bella? “Nel ’95 qui a San Marino, sul Centrale, contro il numero 1 greco Solon Peppas (che poi sarebbe arrivato nei primi 150 del mondo, ndr). Grecia-San Marino, uno pari dopo i singolari, incredibile. Ricordo ancora l’esplosione del pubblico dopo il match point vincente”.
Pur essendo un piccolissimo stato con solo 22 anni nella competizione, San Marino alla Coppa Davis ha dato tanto. Oltre al record di Vicini, ne vanta altri due: il giocatore più giovane, Marco De Rossi, schierato nel 2011 a 13 anni e 319 giorni (e oggi numero uno della formazione) e il più anziano, Vittorio Pellandra, che ha esordito addirittura a 66 anni e 104 giorni. “È successo nel 2007 in Egitto – racconta ancora Vicini -. Siamo partiti con solo due giocatori, ma per iscrivere la squadra ne serviva un terzo. Così abbiamo inserito Vittorio, al tempo vice presidente della Federazione. Io e William Forcellini eravamo distrutti dopo un’intera settimana a giocare singolare e doppio, così l’ultima giornata l’abbiamo invitato a giocare. Poi abbiamo scoperto del record”.
Quest’anno a San Marino è sbarcato anche Marcos Baghdatis, ex numero 8 del mondo e finalista all’Australian Open, ancora oggi fra i top 50. Il suo conto in banca, da solo, supera quello di tutti gli altri quaranta giocatori presenti alla competizione. “Papà, ma Baghdatis che è 50 del mondo che ci viene a fare qui?” chiede un bambino al padre. Spiegaglielo tu che è nato a Cipro e se si guarda indietro trova un burrone. Per questo gli tocca il Gruppo 3. Capita di trovarlo nel campo di calcio adiacente al tennis a fare atletica, sbuffando fra una ripetuta e un’altra. “Ha pure giocato mezz’oretta” racconta più tardi un raccattapalle, evidentemente al corrente della sua ‘relazione complicata’ con l’allenamento. La situazione si ristabilisce a metà pomeriggio, quando ai tavolini del bar, insieme ai connazionali, rovina tutto con mezzo litro di Franziskaner gelata. “Quanto è difficile passare dai migliori tornei del mondo a una Davis con tanti giocatori senza ranking? Non ci faccio caso. Non guardo gli avversari – spiega – io voglio solo aiutare il mio Paese. Il tennis a Cipro non è messo male, ma può crescere ancora. La Federazione può fare di più, il governo può aiutarla di più e i coach potrebbero svolgere un lavoro migliore. Comunque piano piano stiamo crescendo, il numero 2 (Petros Chrysochos, ndr) è 500 al mondo. Dopo il ritiro mi piacerebbe fare qualcosa per qualche giovane promessa, ma devo guardare anche a me stesso e alla mia famiglia”. Con la sua aria da turista col codino, più adatta a qualche locale di Viale Ceccarini, Baghdatis vanta 32 vittorie di fila in singolare in Davis, solo una in meno del record assoluto di Bjorn Borg. E fa niente se l’unico top 100 battuto è Jarkko Nieminen, la statistica rimane invariata. “So di essere vicino al record, ma non ci penso. In questo momento la priorità è la qualificazione del team per il Gruppo 2”. Vero, se solo non fosse che avrebbe potuto centrarli entrambi in una sola settimana, invece si è limitato a giocare un doppio contro la Grecia. In singolare non è sceso in campo nemmeno nel match-promozione con la Norvegia, così sarà Gruppo 3 anche nel 2016.
Sorridono i nordici, che si prendono una piccola rivincita contro gli dei del tennis. Ma la strada è ancora lunga e tortuosa. La Svezia ha avuto alcuni fra i migliori giocatori della storia, la Danimarca ha Caroline Wozniacki, e qualche raggio di sole è arrivato pure in Finlandia. Ma da loro no. Hanno la nuvola di Fantozzi: solo pioggia. L’unico giocatore degno di nota è stato Christian Ruud, numero 39 del mondo nel 1995, ed è proprio lui a tirare le somme, dopo un’oretta di atletica sotto un sole cocente, mentre Oystein Steiro si diverte a tirare (bene) qualche punizione nel campo da calcio dell’impianto. “Sì, sono stato il migliore di sempre” dice con un po’ di amarezza, forse dispiaciuto per non aver lasciato qualcosa di tangibile. Non è il capitano ma il coach di un team che comprende anche suo figlio Casper. “Da noi la gran parte della gente scia o gioca a calcio, è difficile trovare un buon numero di ragazzi da cui provare a tirare fuori un campione. Serve anche maggiore formazione dei coach, così come delle strutture migliori. Ci stiamo provando, qualcosa si muove. Abbiamo qualche ragazza interessante, e anche negli uomini va meglio degli anni scorsi. Durasovic è fra i primi 500 del mondo a 18 anni, mentre mio figlio ha raggiunto la semifinale in doppio a Wimbledon juniores. Speriamo che insieme riescano a fare qualcosa di importante”. Una missione a cui probabilmente ha rinunciato quel giocatore che si gode una sigaretta nascosto in un angolo del Centrale, sperando non lo veda nessuno. Obiettivo fallito, ma genuinità ai massimi livelli, come dovrebbe essere in una manifestazione così. Invece, basta dare uno sguardo a Bet365 per capire che la piaga delle scommesse è arrivata fino a lì, persino se in campo c’è un dilettante. “Che il tuo avversario vincesse due game era dato a otto”, si riesce a origliare da una chiacchierata fra due giocatori. “Ah sì? Avrei fatto fatica a farglieli fare”. In effetti ha vinto 6-0 6-1, lasciando quel game che sa di regalo e fugando ogni dubbio sulla regolarità dell’incontro. “Non ho mai giocato un euro in vita mia, nemmeno sul basket o sul calcio, figuriamoci se mi metto a scommettere su una mia partita”. Anche l’avesse fatto non l’avrebbe ammesso, mica è scemo, ma viene spontaneo credergli e non andare oltre, dopo quell’ultimo quesito che rimane senza risposta.
“Ma in caso di 6-6 al terzo è previsto il tie-break?”.
“Non lo so. Se vuoi chiedo”.
“Tranquillo, va bene così”.
Povera Davis
Il Gruppo 3 della Coppa Davis è un crocevia tra professionisti (pochi) e dilettanti (molto di più). Con storie curiose e straordinarie. Che siamo andati a scoprire nella Repubblica di San Marino.