ESCLUSIVO – A nemmeno un mese dal via, la collaborazione fra il coach campano e il giovane talento azzurro è già terminata. Ce l’ha comunicato Petrazzuolo stesso, in una lunga chiacchierata ad ampio raggio sulla vita del più giovane coach d’Italia.A quanto pare, l’uomo giusto non è nemmeno Giancarlo Petrazzuolo. A neanche un mese dall’inizio, la sua collaborazione con Gianluigi Quinzi è già terminata. Dopo quasi due stagioni al fianco di Simone Bolelli, il coach napoletano, 34 anni, sembrava la persona ideale per traghettare il giovane marchigiano verso i piani alti della classifica: giovane, preparato, spigliato, poteva diventare una guida in tutti i sensi, dentro e fuori dal campo. Invece ha preferito lasciare l’incarico di sua spontanea volontà per incompatibilità di vedute col giocatore (o la famiglia del giocatore?). In una lunga chiacchierata ci ha raccontato i motivi della separazione, ma anche i trascorsi con Bolelli, la vita di un coach nel circuito ATP, le sue idee sul tennis e quel servizio del TG3 finito nei titoli d’apertura…
La collaborazione con Quinzi è durata meno di un mese: ce la riassumi in poche parole?
Il contatto è nato la settimana degli Internazionali d'Italia: una decina di giorni dopo ho incontrato i genitori di Gianluigi per capire come procedere. Ci siamo dati due mesi di tempo per conoscerci, con la supervisione di Umberto Rianna (responsabile del settore over 18 per la Federazione, ndr), visto che partivamo da zero. Avevo bisogno di capirne il carattere e la predisposizione al lavoro. In questo aspetto, purtroppo, ho riscontrato delle incompatibilità fra il suo e il mio modo di ragionare, di vedere certe cose. Ne ho parlato con lui, ci siamo confrontati e mi ha ascoltato, ma siamo troppo diversi. Quindi siamo giunti alla conclusione che per Gianluigi fosse meglio un allenatore in grado di gestire meglio alcune situazioni che a me risultavano troppo complicate. (Petrazzuolo non ha voluto essere troppo esplicito, ma sospettiamo che queste situazioni troppo complicate siano legate al ruolo della famiglia Quinzi, sempre molto presente nelle decisioni tennistiche del figlio, ndr).
Avresti potuto rimanere a ‘scaldare la sedia’…
L'obiettivo di un allenatore dev'essere quello di tirare fuori il massimo dal giocatore, ma anche di avere l'onestà di fermarsi se per vari motivi non si sente in grado di aiutarlo al 100% delle proprie possibilità.
Che genere di lavoro avevate impostato?
La mia idea era quella di far vivere a Gianluigi partite e tornei come un percorso di crescita, lungo e impegnativo, da affrontare con serenità, e non come un esame. In più, si stava cercando aiutarlo a interpretare il tennis in maniera più aggressiva, concentrandosi specialmente sul servizio e sulle prime palle che toccava. Durante la fase di palleggio, invece, l’obiettivo era quello di manovrare di più lo scambio con il diritto, colpo che gli permette di variare con maggiore facilità angoli e altezza della palla.
Un allenatore che si trova a lavorare con un giovane come Quinzi, sul quale ci sono tante aspettative, percepisce il peso di dover dimostrare qualcosa?
Come per ogni professionista, in qualsiasi settore, un coach deve dimostrare qualcosa solamente a se stesso. Se c’è l’impegno, la professionalità e la voglia di dare sempre il 100%, la coscienza è a posto. È quello che devono fare anche i giovani giocatori: ascoltare e dare il 100%. Se poi non basta significa che il loro percorso era un altro. L’importante è impegnarsi, e farsi aiutare quando ci si rende conto di non essere all’altezza di alcune situazioni.
Riavvolgiamo il nastro e torniamo a Bolelli. L'hai seguito per quasi due anni nel circuito ATP: quanto si impara in un ambiente così?
Tanto. Ogni giorno bisogna cercare di imparare qualcosa, con umiltà, voglia di ascoltare gli altri e confrontarsi con loro. Girando con Simone ho avuto la fortuna di stare a contatto con tanti professionisti: giocatori, coach, preparatori atletici. Esperienze che servono per crescere in tutti i sensi.
Sei soddisfatto del lavoro svolto con Simone?
Certamente, ma anche consapevole che si poteva fare qualcosa in più. Nell’ultimo periodo stavamo lavorando per perfezionare alcune cose, già fatte bene ma che se fatte ancora meglio avrebbero portato risultati migliori.
Perché avete interrotto il rapporto?
È una domanda che sarebbe meglio fare a Simone. In ogni caso, mi ha comunicato la decisione nel corso del Masters 1000 di Monte Carlo. Aveva bisogno di nuovi stimoli e nuove motivazioni.
Secondo chi l’ha allenato per quasi due anni, dove può arrivare?
L’obiettivo che ci eravamo fissati all’inizio del nostro lavoro era quello di tornare in un contesto di classifica che gli appartiene, ovvero i top 50. Uno come Simone deve stare a quel livello; ciò che viene in più, è tanto di guadagnato. L’intenzione era arrivarci e rimanerci il più a lungo possibile, consapevoli che prima o poi la settimana giusta per togliersi una bella soddisfazione sarebbe arrivata. Secondo me un giocatore come lui non deve inseguire obiettivi di classifica, che servono solo a creare grandi aspettative. Deve allenarsi e dare sempre il massimo, facendosi trovare pronto. Se gioca sempre come deve, prima o poi la chance arriva. Come è successo con l’Australian Open di doppio: non siamo andati a Melbourne per vincere, ma pian piano ci siamo accorti che si poteva fare.
Qual è l’aspetto più difficile nell’allenare un giocatore di questo livello?
All’inizio mi ha aiutato molto la presenza di Umberto Rianna: il responsabile era lui, io ho fatto solamente da traghettatore, quindi mi sentivo un po’ più tranquillo avendo alle spalle un coach con oltre 20 anni di esperienza nel tour, con cui confrontarmi in ogni occasione. Comunque credo che la parte più complicata sia lo scardinare alcune idee che i giocatori navigati si sono creati. Con i giovani è diverso: si possono modellare di più secondo il proprio pensiero.
Hai smesso di giocare a fine 2009, e qualche mese dopo eri già in pista come coach. Come si cambia vita così rapidamente?
Anche in questo caso sono stato un privilegiato. Quando ho meditato di dire basta ho parlato con Rianna, che proprio in quel periodo stava cercando una persona con cui dividere il proprio lavoro, visto l’arrivo al Blue Team di Arezzo (la vecchia accademia del tecnico campano, ndr) di Giacomo Miccini. Così ho iniziato quasi subito, seguendo qualche settimana Starace e qualche altra settimana Miccini. Mi ricordo bene il primo torneo con Potito: eravamo a Casablanca, e arrivò in semifinale.
Rianna (sinistra) e Petrazzuolo: hanno lavorato fianco a fianco sia con Bolelli sia con Quinzi
Oltre a essere un coach nel circuito, sei tecnico nazionale. Aiuta di più l’esperienza da giocatore o gli studi svolti per prendere la ‘targa’?
Senza dubbio gli studi. Ovviamente il resto fa tanto, ogni allenatore avuto nella mia carriera mi ha lasciato qualcosa che mi porto dentro. E poi appena ho iniziato a fare il coach, sono stato subito a contatto con allenatori di prima fascia, come Piatti, Sartori e altri ancora. Essendo molto curioso, ho chiesto e ricevuto tanto, ma credo che gli studi siano fondamentali. La parte più complicata è eliminare le convinzioni acquisite nel corso della carriera, in base alle sensazioni, al carattere o al proprio percorso. Non sempre sono verità. È necessario separare l’esperienza da giocatore da quella da allenatore, e analizzare la prima con distacco. Per questo, il percorso da maestro e poi da tecnico può aiutare molto. Diciamo che non vedo troppo di buon occhio gli ex giocatori che vogliono trasmettere qualcosa basato solo sulle esperienze personali.
Si conosce molto dell’ambiente dei giocatori, meno di quello dei coach. Come ci si confronta? Ci sono amicizie?
Dipende molto dai rapporti fra i giocatori assistiti. Capita spesso di ritrovarsi a cena col coach dell’amico del tuo giocatore, o del suo compagno di doppio, e via dicendo. Chiaramente poi tra noi italiani si crea sempre qualche intreccio. Siamo in molti, stiamo bene insieme.
Fra te e Bolelli ci sono appena cinque anni di differenza. Generalmente, è un vantaggio o uno svantaggio nel rapporto coach-giocatore?
Dipende. La cosa importante è essere professionali e rispettare il proprio ruolo. Un giocatore di alto livello non ci mette molto a capire la differenza fra amico e coach. Basta guardare Berdych, ha un allenatore di un anno più giovane di lui… Sta tutto nella personalità dell’allenatore e nell’intelligenza del giocatore. Il tennis non è come il calcio, in cui la società sceglie l’allenatore e i giocatori se lo devono far andare bene. Nel tennis è il giocatore che decide la propria guida: se uno fa una scelta di quel tipo, significa che in quella persona vede una figura che lo può aiutare.
Si dice sempre che la vita dei giocatori è stressante, fra viaggi, hotel, mesi lontano da casa. Quella dei coach è identica, e in più non sono nemmeno padroni del proprio destino, perché in campo non ci vanno. È forse ancor più difficile?
No, più difficile direi di no. Le difficoltà sono le stesse se la si vede dal punto di vista degli affetti e della distanza da casa, ma la situazione è un po’ meno stressante. Non c’è la tensione dei match, non c’è lo sforzo fisico, e in più ad una certa età, determinate situazioni si sanno gestire meglio. Questo insieme di cose rendono la vita del coach meno stressante.
In poco tempo hai vissuto lo stesso ambiente da giocatore e da coach. Ora lo vedi con occhi diversi?
Vedendo come stanno in campo le nuove generazioni, o vedendo certi atteggiamenti, direi che prima mi pareva un tantino migliore. Ma forse è solo perché sto invecchiando, o perché da giocatore certe cose non si notano.
Quali sono le qualità di un buon coach?
Il buon coach è quello che riesce a far esprimere il proprio allievo al massimo delle sue capacità. È quello che riesce a capire di cosa un giocatore ha bisogno, e quindi le priorità su cui lavorare. Non credo che ci siano delle leggi da rispettare perché tutto funzioni. Non credo al concetto che “la tecnica è questa”. Ognuno è diverso e ha bisogno di qualcosa di diverso. Non si può far esprimere lo stesso gioco a due tennisti completamente differenti.
Sei stato nel circuito ATP per quasi due anni. Senza scomodare i primissimi, c’è un giocatore che per predisposizione al lavoro, carattere o qualità tecniche ti piacerebbe allenare?
Conoscere i giocatori dal punto di vista personale è abbastanza difficile. Tutti tendono a crearsi attorno una sorta di armatura: capita di pensare Nadal come un ragazzo dal carattere di ferro, che non molla mai, invece magari è una persona timida, introversa. Non sempre campo e spogliatoio dicono la verità. Comunque, a me è sempre piaciuto Dominic Thiem, per il modo di stare in campo e di interpretare il punto, ma anche per l’atteggiamento. Nel periodo in cui non ha ottenuto grandi risultati è sempre rimasto concentrato, ad allenarsi e fare il proprio gioco, anche quando funzionava meno. Si vedeva che credeva fortemente in ciò che stava facendo. Quando la situazione è quella, è solo questione di tempo. Infatti poi i risultati sono arrivati.
Spesso si abusa del termine talento. Secondo te cosa è il talento?
Dipende da che angolazione lo si guarda. In Italia la parola talento si usa per descrivere la facilità di gioco, la capacità di far sembrare semplici le situazioni difficili, di dar l’idea di non far fatica. Ma il talento ha tante altre sfaccettature. Fa parte del talento anche la capacità di giocare ogni punto come se fosse il primo, così come quella di stare in campo a lungo giocando sempre alla stessa intensità, oppure di capire prima le situazioni. Per fare il giocatore serve un po’ di tutto.
Di recente sul tuo profilo Facebook hai scritto un post sull’importanza del ‘pensare giusto’. Cosa significa?
Credo sia la chiave di tutto. È il cervello che comanda il fisico, l’attività motoria e quant’altro. Un giocatore si può allenare anche dieci ore al giorno, ma se mentalmente è debole, in campo sarà comunque lui il primo a mollare. In età giovanile bisogna capire come pensare, senza puntare al risultato con fretta, ma lavorare con la consapevolezza che con costanza e umiltà il giusto percorso porterà ai traguardi fissati. La fiducia è quella, non arriva dalle partite vinte. In quel caso bastano poche sconfitte per farla svanire. La fiducia è qualcosa di più profondo, come una religione. Una persona crede in Dio anche se magari gli capitano delle disgrazie; la fiducia è la stessa cosa. Credere nel proprio percorso anche se non si vedono subito i risultati. Nei nostri giovani, invece, mi capita di vedere un po’ troppa fretta di fare risultato a tutti i costi. A lungo andare può diventare un problema.
La tua storia è finita addirittura nel TG3 nazionale: ci racconti come è andata?
Io vengo da Scampia, quartiere di Napoli purtroppo famoso per motivi poco nobili. Quell’anno c’erano state oltre 100 vittime a causa di alcuni conflitti fra clan, e nel periodo più 'caldo' stavo giocando il Challenger di Napoli. Alcuni giornalisti del posto diedero la notizia alla Rai, e partì una troupe da Roma per venire a fare un servizio su di me. Lo girarono nel mio quartiere, come promozione dello sport e della parte buona di Scampia. La lanciarono addirittura nei titoli d’apertura. Un bel ricordo.
La situazione di Scampia è veramente così difficile come l’immagine che viene trasmessa all’opinione pubblica?
Sarà perché io ci sono nato e cresciuto, facendo elementari, medie e superiori all’interno del rione, ma non percepisco tutto quello che si dice su Scampia. Ho sempre avuto belle amicizie e conosciuto persone senza rapporti con la criminalità. Sapevo della pericolosità del quartiere, ma non l’ho mai provata sulla mia pelle. Per fare un esempio, a 11 anni prendevo l’autobus da solo per andare ad allenarmi. La mia famiglia vive ancora lì, così come sia sorella. Parcheggiano la macchina in strada e non abbiamo mai subito né furti né rapine (ride, n.d.r.). Dispiace che l’immagine che si è creata intorno a Scampia abbia di fatto eliminato qualsiasi attività commerciale nel quartiere. Purtroppo fanno più notizia dieci criminali di novanta persone oneste.
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