L’ARTICOLO DI REPUBBLICA COL QUALE LO SCRIBA RIVELÒ IL TALENTO DI PISTOL PETE. MALE INTENDENDO IL SUGGERIMENTO DEL COMPIANTO AMICO BUD COLLINS CHE GLI AVEVA CONSIGLIATO DI SEGUIRE IL SUO AVVERSARIO: MICHAEL CHANG. MA TANT’É… PETE SAMPRAS DI GIANNI CLERICI 

Bud Collins è uno dei pochissimi colleghi yankee che valga la pena di leggere. È anche un amico, dalla primavera del 1968, l’anno in cui Bournemouth segnò l’inizio dell’era Open. Amicizia e stima sono certo sufficienti per ascoltare qualcuno, e questo avvenne giusto tre anni fa, durante lo US Open di Flushing Meadows, e cioè degli Stagni Scintillanti. Imbattuto in sala stampa, Bud prese ad insistere con insolita eccitazione su un suggerimento che io avevo l’aria di disattendere. Dovevo, assolutamente dovevo, fare un salto fino al campo numero 17, dove si esibiva, in secondo turno, la nuova, grande speranza americana. Go e scrive, salami. Finì di insistere Bud, nel suo italiese. Non mi restò che rassegnarmi. Su quel campo periferico, completamente disertato dal pubblico, si battevano testardamente due ragazzini. Uno, dal colorito olivastro, dal faccino sudamericano, trapuntava la sua partita di invenzioni e sorrisi, di tocchi mescolati a incredibili accelerazioni. Restai lì incantato, finché quell’ignoto Pete Sampras non ebbe finito di dominare il suo avversario, e subito volai in sala stampa, alzai un telefono, chiamai insieme il Giorno e il mio amico Sergio Tacchini. Al giornale dettai un articolo presto giudicato delirante, ma comunque pubblicato per antica rassegnazione. A Tacchini dissi di rivestire ad ogni costo quel miracoloso bambino. Se non ci credeva insistetti, di fronte alla sua perplessità, garantivo io. Insieme a Tommasi e Palmieri, non gli avevo segnalato da Dallas l’esistenza di un giovanissimo McEnroe, nel 1975? Tacchini ha giocato portiere in una grande squadra di cui son stato capitano, il Serpenton. Insieme abbiamo devastato piantagioni di bottiglie. Lasciò passare un solo giorno e, col suo piglio manageriale compose il numero della filiale milanese della Img. A rispondergli venne personalmente Cino Marchese, l’emissario italiano di McCormack. La richiesta di Tacchini lasciò Marchese perplesso. Cino, in realtà, non ricordava quel Sampras e presto, dal quartier generale americano della Img, gli fu risposto che il piccolo era sì opzionato, ma non sotto contratto. Era infatti ancora dilettante, ancora minorenne, e la legge non permetteva quindi di disporne come di un bene di consumo. Marchese stava per comunicare queste informazioni a Tacchini, quando il suo telefono iniziò a scaldarsi. Altri tre magliari italiani avevano letto il mio articolo, e parevano decisi a rivestire l’ignoto mannequin. Si fregò le mani, Cino Marchese detto Silver Fox, volpe argentata. Detto fatto, organizzò una regolare asta per il bambino, e in ventiquattr’ore Tacchini finì col vincerla, per l’incredibile somma di 250.000 dollari triennali, una cifra degna di un campione. Come la notizia mi fu comunicata, restai interdetto. Quel Sampras mi aveva certo affascinato ma, dopotutto, l’avevo visto dominare in meno di un’ora un nanerottolo sconosciuto quanto lui.

Girai quindi le mie preoccupazioni a Bud Collins, e ne nacque una conversazione che riferisco. Clerici: «Bud, Tacchini ha comprato la vostra grande speranza per 250 mila dollari l’anno. Non è una follia?» Bud: «Forse è un po’ caro, ma se riuscirà a crescere di statura, li varrà». Clerici: «Mi pare già piuttosto alto, per un quindicenne. In realtà, con quel suo serve and volley, ricorda Gonzales, e insieme Santana». Bud: «Veramente, non mi pare vada molto a rete. Oddio, forse ci andrà. Ma per ora si limita a rinviare, non sbaglia mai, giusto le qualità di tenacia della sua razza». Clerici: «L’avrai visto in un’ altra partita. Quando l’ho visto io, non stava indietro nemmeno ad ucciderlo». Bud: «Tutto è possibile. Certo che per andare a rete è proprio piccino». Clerici: «Temo ti sbagli davvero. Quel tipo sembra australiano». Bud: «Eri sobrio, caro Gianni? Non credi di aver sbagliato campo? Michael Chang è figlio di cinesi!». Fui costretto a sedermi, per il colpo. Anche Collins si sedette, per il gran ridere. Dovevo aver confuso i due, spiegò. La grande speranza americana era quel piccolo cinese, che per una volta aveva perso un match, il primo della stagione, contro uno sconosciuto ragazzino. Da quel giorno, presi a seguire febbrilmente i risultati di Sampras, in ogni angolo del mondo. Passò professionista nell’88, ne diede ma ne buscò anche molte, e in due anni era risalito in tutto di sedici posizioni, dal numero 97 all’81. Cominciai dunque ad evitare Sergio Tacchini, e mi chiesi se mi avrebbe davvero citato per danni, come aveva annunciato a un amico comune, il notaio Gilardelli. Cercavo di puntellare la mia fiducia incrinata, dicendomi che, prima di Sampras, avevo visto in fasce Rosewall e Santana, Roche e Laver, e ne avevo intuito l’indubbio talento dai vagiti. Pete Sampras era invece dotato di una qualità poco comune, in questo tennis di mostruosi bambini prodigio. Era un tipo normale, cresceva tranquillo, vittorie e sconfitte andavano e venivano come i foruncoli sulle sue guance di adolescente. All’inizio dell’anno, Pete prese a radersi con regolarità, e a vincere di più. Gli toccò, come battesimo vittorioso lo Indoor Usa, grande torneo un po’ decaduto. All’organizzatrice Marilyn Fernberger che gli presentava i 150 milioni di premio, osservò allegro: «È un gran piacere, ma non sono questi i tornei che davvero contano». L’aveva ammirato, intanto, anche Fred Perry, triplice campione a Wimbledon negli anni Trenta. «Non capisco più niente di questo maledetto gioco se Pete non vince un Grand Slam, e al più presto» affermò, festoso e rubizzo. Era brandy o preveggenza? In simile buona compagnia, mi tolsi la barba finta, e invitai Tacchini a cena. Il rosso di mia produzione parve renderlo generoso. «Quel tuo Sampras non è poi tanto male», finì per ammettere.