Il tennis ha sempre conosciuto i suoi malanni, ma per le ultimissime generazioni gli infortuni stanno diventando una compagnia quotidiana, o quasi, per tutta la carriera. Colpa dei materiali che consentono movimenti traumatici e di un calendario senza pause

Parlando di infortuni, concordo con Fabio Fognini sulla necessità di fare la tara a quanto si legge e si scrive sul tema. Tuttavia quando ci sono ci sono, e il sofferto ritiro di Nadal da Wimbledon è per il maiorchino l’epilogo di una lunga storia di acciacchi iniziata in età adolescenziale e perpetuata nell’arco della sua lunga carriera. La storia dello spagnolo è quella di Camporese piuttosto che di Philippoussis, di Del Potro e di Kuerten, fino a quella più moderna di Federer e Dimitrov, Berrettini e Musetti, Sinner e di chissà quanti altri ancora. Una lunga striscia di malanni con i quali quasi tutti sono chiamati prima o poi a fare i conti e che pone interrogativi circa le ricadute del tennis professionistico sul fisico dei suoi protagonisti.
Procedendo per ipotesi, e visto il loro incremento negli ultimi anni, una prima riflessione va rivolta al cambio dei materiali iniziato con gli anni Settanta e ancora in atto seppure in misura minore.
Non abbiamo casistiche che possano illuminarci sulla quantità di acciacchi ricorrenti prima che gli attrezzi in fibra entrassero a far parte dell’armamentario ricorrente. A occhio e croce, potremmo pensare al tennis elbow di Tony Roche piuttosto che alla schiena malandata di Lew Hoad, per sforare su altri esempi del tempo che fu, numerosi ma sicuramente inferiori a quelli dei giorni nostri.
«Le racchette di legno erano pesanti, è vero», afferma Ken Rosewall, «ma non permettevano i movimenti rapidi e violenti che si vedono oggi. Non sarebbe stato possibile, quindi i gesti erano meno traumatici».
Un punto di vista condivisibile che spiegherebbe in parte come negli ultimi dieci anni l’aumento di problemi fisici sia stato del 35% tra i professionisti e immagino altrettanti tra gli agonisti dilettanti. Malanni assortiti in modo diffuso: spalle, polsi schiena, gomiti, ginocchia e giù giù fino ai piedi.
Per ridurre i tempi di recupero i medici dello sport sempre più spesso ricorrono all’utilizzo di trattamenti come la laser-terapia, ma il problema rimane. Dice uno di loro, fisiatra, componente della Commissione Medica della Federazione Italiana Tennis: «Il tennis è una disciplina veloce e intensa che causa una grande sollecitazione del sistema osteo-muscolare, dando origine a tendinopatie con varia localizzazione, lesioni muscolari e sovraccarichi della colonna vertebrale».
Mi aggancio a questa riflessione per farne una mia sul fenomeno in atto. Per dire che con l’avvento della fibra il tennis è aumentato in potenza e velocità. L’evoluzione, iniziata negli anni settanta, ha dettato l’esigenza di una diversa struttura fisica e la statura media dei giocatori è aumentata di 25 cm nei successivi quarant’anni. Questo scatto fisico ha riequilibrato in parte i requisiti necessari per competere ad alti livelli, ma solo in parte. In realtà, già negli anni novanta, le qualità fisiche naturali erano deficitarie rispetto alle richieste del gioco e hanno continuato ad esserlo fino ai giorni nostri in cui la nuovissima generazione, quella di Alcaraz, Rune, Sinner e Co, per intenderci, hanno impresso maggiore velocità agli scambi, aggravando il gap tra risorse fisiche a disposizione e quelle necessarie alla competizione. A questo si aggiunga che pur di stare nello scambio, si è trascurata la bontà del gesto ricorrendo sempre più a una tecnica ricca di dispersioni e quindi deleteria per le articolazioni.
Concludo facendo la somma con un calendario troppo fitto che non lascia spazio neanche alla punta di uno spillo, e l’immagine che emerge del tennis è quella di uno sport traumatico come molti altri, che procede al buio di soluzioni immediate.