Pubblichiamo l’intervista ad Adriano Panatta concessa al nostro direttore e apparsa l’8 luglio su La Stampa di Torino. La Roma degli anni ’50, la passione per auto e moto, i contratti strappati, il rapporto con Mario Belardinelli, l’Italia di oggi e il tennis di domani. Uno dei grandi personaggi dello sport azzurro racconta i suoi primi 70 anni

Foto Archivio Il Tennis Italiano

Adriano Panatta compie 70 anni. «Ho capito: mi tocca l’epitaffio».

No, Adriano: le memorie di un italiano. Partiamo dagli anni ’50?

«Vivevamo al Parioli, mi ricordo il pizzetto del maestro Moretti, la nevicata del ’56. Non sapevo di vivere nel dopoguerra: me ne accorsi quando al Campo Parioli tolsero le baracche degli sfollati per farci il Villaggio Olimpico. Demolirono il vecchio Stadio Torino, dove mio nonno Pasquale era custode, per costruirci il Flaminio. I 200 metri di Berruti li vidi in diretta tv».

Un altro mondo?

«Mai detto in vita mia: ‘ai miei tempi…’. Non è giusto, né elegante. Avevamo meno esigenze, questo sì. Quando uscivi i genitori ti davano un gettone: ‘se hai bisogno, chiama’, altro che telefonino. Gli spostamenti erano complicati.

Negli anni ’60 ci trasferimmo all’Eur. Moderno, bellissimo, però ogni giorno dovevo farmi 20 chilometri in bici per andare a giocare al Parioli. Belli i sette colli, ma se devi pedalare… Poi mio padre mi comprò il velosolex e mi sentivo il re del mondo. Giravo con il sole, la pioggia, i giornali sotto la maglietta per proteggermi dal vento».

La prima moto?

«Tormentai mio padre perché volevo un Mondial 50, che costava quasi quanto un suo stipendio. Aveva quattro soldi in banca, e risparmiava per farci fare le vacanze – evidentemente non ho preso da lui… – ma me lo comprò. Una cosa che mi ha segnato per sempre».

Meglio il tennis o i motori?

«Il tennista l’ho fatto per 15 anni, il motonauta per 25, con due record del mondo di velocità e un mondiale endurance. Ho corso anche in macchina, fatto i raid nel deserto. Al Parioli dissi: continuo a giocare per voi ma in regalo voglio la Gilera 125: avevo compiuto 16 anni. La mia racchetta era la Maxima, ma al vecchio signor Pietra, che era un po’ tirato, per rinnovare il contratto chiesi di passare alla Dunlop, che lui distribuiva in Italia, e un milione. Lo spesi per comprami un’Alfa Gt junior, bianca, usata. E ci andai subito a Formia».

Con «Il Manifesto» sotto il braccio.

«Sì, ma solo per fare incazzare Mario Belardinelli, che era fascista. Ero molto più moderato di quanto volevo far credere».

E senza manager e addetto stampa.

«Un giorno mi chiama la Pirelli, vado a Torino, da solo. Sede megagalattica, uffici enormi. L’amministratore delegato mi spiega che vogliono fare una scarpa Superga con il mio nome, mi chiede se ho una richiesta. ‘Sì: 100 milioni’. ‘Ma lo sa – mi fa – che io ne guadagno 36?’. ‘E lei lo sa che io tiro le palle sulle righe?’. Ha firmato».

Gli anni 70 li ha vissuti in campo, non in piazza.

«Anni bellissimi, e tremendi. Il terrorismo, ma anche tanta creatività. Poi io sono uno che si adatta bene. La svolta è arrivata con internet. Prima la conoscenza era riservata a chi aveva i soldi per studiare, adesso è alla portata di tutti. Che la sappiano usare, è un altro discorso…».

E’ stato consigliere e assessore comunale allo sport: che pensa della politica?

«Mi ha insegnato la difficoltà di governare. Oggi ci sono solo alleanze che durano poco, io vorrei una politica sociale pensata per i ceti meno abbienti. E una battaglia comune contro la burocrazia, il vero male dell’Italia. Quello che mi piace, e mi fa arrabbiare, è che ci divertiamo a complicare le cose, però se serve il ponte di Genova lo costruiamo in un anno».

Gli italiani le piacciono?

«Un popolo meraviglioso. Poi mi infurio quando vedo gli scemi che ballano e cantano senza mascherine. Non userei il lanciafiamme di De Luca, che pure mi ha fatto sorridere, ma l’idrante sì. Siamo un paese pieno di eccellenze, che a volte spreca il suo talento».

Infatti in Europa ci criticano.

«Quattro paesi, poco popolati. Ma lei l’ha mai visto un comico del Liechtenstein? Un comico danese che fa ridere? Perché bisogna anche saper ridere».

Un romano che vive a Treviso: come si trova?

«E’ una città civile, molto bella. Ho trovato la mia dimensione, l’anno prossimo inaugurerò un centro tennis molto importante. Ho trovato la mia dimensione, la metropoli ormai mi dà l’ansia. Roma la adoro, figuriamoci, ma appena arrivo al raccordo anulare mi incazzo…».

Tre minuti da attore ed è ripartita la sua popolarità: il cinema la tenta?

«Non scherziamo. Poi ora che ruolo potrei fare? Al massimo il nonno».

Il tennis come è cambiato?

«Hanno venduto la Coppa Davis, una vergogna. Per anni hanno messo i manager della Disney a governare lo sport, ora per fortuna c’è Andrea Gaudenzi, che di tennis ne capisce».

Dopo Federer che succede?

«Ci dispiacerà non vederlo giocare, ma arriveranno altri campioni, come sempre. Morto un papa, se ne fa un’altro».

Molto romano. Per chiudere: di che cosa va fiero?

«Di aver reso popolare il tennis. E di essermi comportato sempre bene con le persone. Senza portare rancore a nessuno».


(per gentile concessione de La Stampa)