Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo racconto, tratto dal libretto di testi “L’indomito talento del tennista”

foto Mario Gogh/unsplash

Non ce n’è per nessuno: alla fine vinco io.

Non è una questione di classe o di talento, è solo che la palla, comunque arrivi, torna dall’altra parte. E questo è il problema.

Non per me, ovviamente.

Lo vedo nello sguardo degli altri soci del club, all’arrivo al circolo. Sanno che dovranno giocare contro me. Qualunque sia la posta in palio, torneo, campionato o prosecco, le cose non cambiano: hanno sempre la stessa malcelata espressione di fastidio, che poi altro non è che un modo elegante di avvertire disprezzo.

Ma tant’è: prima o poi dovranno confrontarsi con me, e allora finiranno per perdere.

Suderanno, organizzeranno strategie elaborate mentre preparavano la borsa o sotto la doccia; cercheranno di spingere il più possibile, imprecheranno, sputeranno sangue, anche.

Ma niente: a nulla sarà valso il loro sforzo.

Qualcuno tenta anche di imitarmi.

Ma pallettari si nasce.

E s’impara a convivere con tutto quello che ne consegue.

Sul rettangolo rosso o come nella vita, anche le cose più forti sembrano rimbalzarmi contro.

Come un muro, riesco comunque a rispedire al mittente, a dire la mia, a mettere una parola definitiva allo scambio, alle considerazioni. A volte in modo più elegante e puntuale, a volte meno.

Chi mi conosce sa che non ci sono scappatoie, compromessi o altro.

Sono uno concreto, io.

Butto sempre la palla dall’altra parte.