I giocatori che hanno avuto il ll loro giorno di gloria a Wimbledon. Magari non la buttavano di là, ma quando arrivavano i Championships…DI FEDERICO FERRERO
Nato il 4-11-76. Best ranking: 74. Titoli ATP: 0.
C’è quel mestierante che sente aria di casa nel torneino di San Marino e chi, per trovare la sua, ha bisogno di respirare Wimbledon. Per qualche tempo, a inizio millenio, una Germania in disarmo – Herr Stich ritirato con la schiena rotta nel 1997, Boris Becker per vecchiaia due anni dopo – prese a gridare al fenomeno per ogni primo turno superato da un tedesco in uno Slam. Quando i turni furono non uno ma quattro (Agenor, Chang, Kuerten, Rosset) e Alexander Popp, signor nessuno di Mannheim, si presentò nei quarti di finale di Wimbledon 2000 contro Pat Rafter, lassù pensarono davvero di aver avuto in dono l’Erede. Non appena si sparse la voce che mamma Popp era londinese, la LTA le provò tutte per convincere la famiglia a lasciare la Germania: un’operazione riuscita con Greg Rusedski, non quell’altra volta. Comunque fosse, i gridanti al miracolo sbagliavano. Dopo quel Last Eight nel Tempio i 201 centimetridi Alex si ritirarono a vivacchiare nei challenger, possibilmente tedeschi. Popp fece puff: sparì per tre anni e rientrò ai Championships, col ranking protetto per una lunga degenza, nel 2003. Risbocciò l’amore: ancora una volta, quarti di finale. Come finì? Ora che Alexander non gioca più, si è laureato in farmacia e vive a Berlino a distanza di sicurezza dal tennis, il ricordo di quell’ultima grande sfida lo sopporta con rassegnazione. Perché se Mark Philippoussis non avesse giocato una Panattavolley in tuffo, sul cinque pari nel quinto set e palla break Popp, i quarti sarebbero diventati semifinale e lì – meglio non pensarci, davvero – non se la sarebbe dovuta vedere con Federer, o Roddick, Hewitt o Agassi per un addio senza rimpianti. No: di là ci sarebbe stato Sebastien Grosjean. Popp in finale a Wimbledon: ci pensate?

Chris Bailey (GBR)
Nato il 29-4-1968. Best ranking: 126. Titoli ATP: 0.
Sette operazioni al ginocchio. Sette tabelloni a Wimbledon. Tutti con wild card omaggio: nei primi anni Novanta non si dava ancora l’ipotesi di un britannico capace di entrare nel torneo sulle proprie gambe e con quelle classifiche lì (321, 527, 235) il cremoso Bailey restava uno dei migliori tennisti da presentare – si fa per dire – ai Campionati. Non esiste ragione al mondo per scrivere di un lungo ragazzo del Norfolk che non vinceva mai, se non per quella cascata di servizi kick e volée che sotterrarono, in un secondo turno del torneo del 1993, Goran Ivanisevic. Proprio il finalista del ’92, mister ace. Che servì la palla del match a Bailey, e la mise in rete. Seconda palla: un’altra prima. Nastro, impennata, riga. Altra seconda, ace ai centonovanta all’ora. Ivanisevic si scosse, pareggiò, fece il break, vinse 9-7: per essere un cavallo pazzo sapeva come vincere, qui. Salvo quando incontrava Sampras. Raccontano i cronisti che Bailey, affittata una stanza in una villetta di Southfields, abbia passato il resto del decennio a camminare avanti e indietro per Church Road biascicando frasi incomprensibili in gaelico.

Rod Frawley (AUS)
Nato l’8-9-1952. Best Ranking: 43. Titoli Grand Prix: 1.
Oggi ha quasi sessant’anni, vive in Germania e ha sposato una donna miliardaria. Nel 1981, con la zazzera e i baffoni di un attore hardcore, una delle prime racchette in grafite e quasi trent’anni sulle spalle, indovinò i dieci giorni che valgono una vita. Nel suo spicchio di tabellone tutte le teste di serie avevano perso la strada: Roscoe Tanner (contro Kirmayr, noto sì, ma per essere stato il coach di Gaby Sabatini), Victor Pecci coi primi segni della decomposizione agonistica, ma anche il giovin Lendl, l’allergico al verde Vilas, un acerbo Noah. Ed ecco Rod Frawley in semifinale a Wimbledon: in alto, Connors contro Borg e l’epica rimonta dell’Orso da due set a zero, della quale si parla ancora tra i vecchi frequentatori dei club: se Jimbo non avesse fatto quel doppio fallo… In basso, la partita-prosecco tra Rod e John McEnroe. Facile, veloce, frizzante. Frawley aveva le stesse possibilità di vincere contro MacGenius di Fernando Maynetto, un canadese che i tabelloni sostengono abbia disputato, quell’anno, un match ufficiale a Wimbledon. Un bel fisico allenato e un po’ di potenza resero i parziali non umilianti. Nell’edizione 1982, Frawley perse al secondo turno. L’anno dopo, 1983, Tian C. Viljoen vinse la sua prima e ultima partita nel suo primo e ultimo Slam: nove-sette al quinto: contro Frawley. Nel 1984, più niente. Rod Frawley era un ex giocatore e un novello sposo.

George Bastl (SUI)
Nato l’1-4-1975. Best ranking: 71. Titoli ATP: 0.
Ha trentasette anni, la barba incolta del predicatore hippy, vive a Chicago e va a zonzo. Anche al circolo Harbour di Milano per il torneo challenger da 30.000 euro. Dieci anni fa risiedeva in Svizzera, in un paesino lussoso dove le banche sgomitano per sistemare una filiale, e aveva un conto aperto nell’Atp. Un buon professionista. Sull’ignominioso court 2, che fino al restyling del 2009 (da allora è stato pure rinumerato, è diventato campo 3) era noto come graveyard of champions, il cimitero dei campioni. (Lì persero fior di maestri, McEnroe, Stich, Connors, Sampras, Agassi contro i signori Gullikson (Tim), Shelton, Kuehnen, Bastl, Doug Flach), gli diedero in pasto i resti di Pete Sampras, che stava per salutare tutti con lo Slam numero quattordici a Flushing Meadows ma in quell’estate veniva chiamato dead man walking, il morto che cammina, da chi non gli voleva bene. O gliene voleva troppo e soffriva a vederlo ciondolare così, in cerca di un modo per andarsene che fosse all’altezza della storia personale. «Hanno capito che sono battibile e ci provano tutti», furono le parole di Pete una volta lasciato il campo. Aveva recuperato due set, si era proposto con una palla break nel quinto, ma niente: George vendette la sua anima per un set, e ce la fece. È che sta ancora espiando la sua pena: fu la sua ultima vittoria a Wimbledon, quel secondo turno del 2002. Meglio: la sua ultima in uno Slam. Da due anni non ha più la classifica per provarci ma lo trovi a fare un doppio con Marko Djokovic a Helsinki, a provarci nelle qualificazioni di Pozoblanco. Chissà quando estinguerà il debito.

Peter Doohan (AUS)
Nato il 2-5-1961. Best ranking: 43. Titoli ATP: 0.
A Newcastle, quella del Nuovo Galles del Sud, hai il mare davanti agli occhi. Alle spalle, ranch e distese di erba. Peter Doohan ci era cresciuto, sui prati, all’oscuro del mondo fino al 1987, quando Spiderman si presentò sul vecchio Campo 1 per affrontare Bum Bum Becker, campione di Wimbledon ’85 e ’86, testa di serie numero uno. Un match da 7-6 4-6 6-2 6-4, quattro set commentati dal lentigginoso con un misto di saggezza e leggerezza: «Non è iniziata una guerra, nessuno è morto, ho perso una partita di tennis, non sentivo alcuna pressione. Sapete cos’è la pressione? È quella di un padre che fatica a mantenere la sua famiglia». Doohan durò un giorno, come le farfalle. Il tempo di recuperare due set di svantaggio a Leif Shiras, un biondino belloccio più attento allo specchio che al gioco, poi Bobo Zivojinovic  prese di mira le sue ali e tanti saluti, fine di Peter Doohan. Non vinse mai più una partita a Wimbledon. Oggi lo chiamano ancora The Becker Wrecker, lo Spaccabecker: succede al circolo di Nelson Bay, Hunter Valley, la sua terra. Dà lezioni a cinquanta dollari l’ora.

Goran Ivanisevic (CRO)
Nato il 13-9-1971. Best ranking: 2. Titoli ATP: 21. Slam: 1.
Leggete, prima di imprecare. Cosa ci fa il campione Goran, il fenomeno Goran qui, in questa compagnia di mezzi giocatori, mezzi avventurieri e turisti del grande tennis? Lasciate in un angolo l’emozione per quella manifestazione di vita ultraterrena di Wimbledon 2001 e pesate i suoi risultati nei major: zero semifinali in Australia, zero a Parigi, una a New York (contrappeso: quattordici primi turni!). Goran era se stesso, diavolo e angelo, solo a Wimbledon. Con tutte le sue contraddizioni: cento ace nell’edizione 1992 e a tradirlo è il suo cannone, nell’ultimo gioco del quinto set contro Agassi. 1994: la finale a pistolettate contro Sampras, due tie-break persi – lui che di quelli campava – e il 6-0 nel terzo per puro annientamento mentale. 1998: un Goran che finge di essere maturato, barbuto e baffuto, regge la scena quattro set, ancora di fronte a Sweet Pete. Esce smascherato e ormai non ci crede più nessuno. In quel 2001 fecero visita a Wimbledon eventi sovrannaturali: mentre si faceva prendere a pallate da Caratti Kid al Queen’s, quelle tre finali avevano impietosito il comitato di Wimbledon. Che gli regalò una wild card di riconoscenza. Come quelle serate di addio degli attori bolliti, sperando in un sorteggio non troppo cattivo (difficile trovar meglio di Caratti, peraltro). Numero 125 al mondo, vecchiotto, Ivanisevic era tornato a provarci addirittura coi challenger, qualche settimana prima. Come abbia potuto abbattere Roddick, Rusedski, Safin, Henman e Rafter, 9-7 al quinto dopo una raffica di match point mancati, fa parte del mistico e non va approfondito all’eccesso. Poteva succedere solo a Wimbledon ed è lì che lasciò la sua anima, insieme alla spalla: che gli cascò dopo l’ultimo match point ma Goran non fu mai tanto felice di un grave infortunio. Aveva fatto un patto con Dio: prenditi la mia spalla, la carriera, tutto. Dammi un maledetto Wimbledon.