Un tempo i gesti che oggi procurano una medaglia servivano a sopravvivere e mangiare. Lo spettacolo dei Giochi continua ad essere più importante per discipline meno ricche e frequentate del tennis, che con i cinque cerchi ha sempre avuto un rapporto difficile. Come dimostrano anche le defezioni di Tokyo
Chissà quante arie avrebbe assunto, l’Homo Herectus, all’idea che le sue movenze sarebbero divenute, un giorno, oggetto di culto! Avrà mai pensato, l’antico progenitore, che in un lontano futuro, i gesti della sopravvivenza sarebbero stati motivo di spettacolo? Cosa avrebbe convinto un bipede del Paleolitico, rizzatosi sulle gambe da qualche migliaio d’anni, che lottare, camminare, correre, lanciare, saltare, remare o quant’altro, sarebbero divenute attività degne di medaglia? In fondo lui lo faceva solo per mangiare.
Quando divenne Sapiens, l’Homo iniziò a trovare il necessario nel mercato sotto casa e quelle azioni divennero presto quasi inutili e a rischio estinzione. Così qualcuno più Sapiens degli altri, pensò di renderle immortali replicandole in circostanze diverse: senza prede e con trofeo in palio. Fu lo sport, nacque l’Olimpiade.
Fin lì tutto bene. I problemi giunsero quando si volle uscire dallo spirito primordiale del gesto e ospitare discipline praticate con attrezzi inutili alla caccia usati per ricacciare una palla oltre una rete o prendere a pedate un ‘coso rotondo’ a zonzo per il campo. Sport poco ancestrali per avere con i Giochi un feeling perfetto.
Tant’è che intorno alla sua prima apparizione, per il tennis ci si misero anche i calendari a confondere le idee: il Gregoriano fissava il torneo in Atene tra il 6 e l’11 di aprile del 1896 mentre quello Giuliano lo riportava tra il 27 e il 30 marzo dello stesso anno. Un guazzabuglio premonitore circa il rapporto tra questa disciplina e il clima olimpico. Una relazione fatta di sorrisi e qualche fiore ma solo di recente divenuto amore. Presente fino al 1924, il tennis, sparisce nei successivi 44 anni. Una fugace esibizione ai Giochi messicani del ‘68 e ancora divorzio fino alla riconciliazione di Los Angeles nel 1984 in pieno boicottaggio russo. Da allora è stato idillio senza interruzioni fino a questa XXXII Olimpiade nella terra dei samurai dove il torneo avrà luogo l’ultima settimana di luglio. A scorrere l’albo d’oro si capisce come i Giochi siano un appuntamento meno appetibile di un Grande Slam, seppure dal 2008 distribuisca punti Atp. Un buon salto rispetto al passato, ma non ancora sufficiente per contare su una partecipazione a suffragio universale. Dalla bolla anticovid del Sol Levante, per ora si sono chiamati fuori Sinner e Nadal, Federer e Pospisil, fino a Serena Williams, Kerber e Azarenka, esponenti di spicco in area Wta.
Atleti che godono già di grande visibilità e danno ai Giochi un’interpretazione meno vitale rispetto ad altri. Cosicché l’Olimpiade diviene la rivincita delle discipline cosiddette povere, pressoché ignorate per il resto del quadriennio: un canoista o un lottatore non potrebbe neanche pensare di non andare.
Con la versione moderna dell’evento, iniziata a fine ottocento, all’allora Presidente del Cio, il Barone Pierre De Coubertein fu attribuito erroneamente il motto secondo il quale ‘partecipare fosse più importante che vincere’. In realtà l’adagio fu pronunciato da Ethelbert Talbot, arcivescovo della Pennsylvania, che ai giochi di Londra del 1908 ripescò le parole di un filosofo greco il quale pare abbia aggiunto :‘ …con spirito vincente’.
Ma le Olimpiadi vanno oltre la cruda prestazione e da sempre, almeno a parole, accendono i fari su aspetti sociali di solito sorvolati. Perché se è vero che una metà del mondo nobilita il gesto atletico in eventi sportivi di grande eco, un’altra metà è ancora ferma alle necessità, terra terra dell’Homo Herectus, e la sua Olimpiade se la gioca tutti i giorni lottando per qualcosa da mangiare e un po’ d’acqua da bere.