In zona mista, in attesa di parlare con Lorenzo Musetti, capitano incontri interessanti… o forse è colpa del caldo!
foto Paul Zimmer / Itf
La zona mista è una delle tappe fisse della giornata. E’ la terrazza del Villaggio commerciale del Roland Garros, adattata alla bisogna con un corridoietto centrale dove transitano vincitori e sconfitti. Il caldo è appena filtrato da qualche vetrata e dal tetto aperto, ma comunque si suda, ci si asfissia. Minuti, mezze ore, ore – Musetti dopo il match con Fritz lo abbiamo aspettato un’ora e quaranta… – passate lì ad attendere i giocatori dopo il match, senza sapere a che ora arriveranno. Per ingannare il tempo si guardano i messaggi sul cellulare, si commentano le medaglie del giorno. E si chiacchiera un po’ con tutti, con chi è lì a caccia di un doppio misto slovacco o con un americano deluso. Oggi, ad esempio, ho intravisto un signore pallido, alto, robusto, mascella forte e zigomo volitivo, un po’ stempiato, vestito tutto di lino bianco, seminascosto nell’ombra di uno degli anditi che danno sulle scale per il piano terra.
«Buongiorno», mi ha detto con sorriso aperto e simpatico, e una calata triestina che mi ha fatto subito pensare a Ray Giubilo, il nostro fotografo.
«Mica male quel mulo… come se ciama… ecco, Musetti».
«Buongiorno a lei. Mi perdoni: mulo? Non capisco».
«Ha ragione… volevo dire ‘Muso’: non lo chiamate così? Bel rovescio, anzi splendido. E come el se movi, me piasi assai».
Faccio per stringere la mano a quel personaggio così elegante, che non ho mai incontrato, eppure dalla fisionomia familiare, ma mi accorgo che lui non me la porge, anzi, quasi ritira il braccio, rintanandosi nel buio.
«Mi perdonerà, qui ghe xe una bavisela, un pochetto de vento, mi rinfresco un attimo, che sul balador fa tanto caldo.… Dicevo: bel zogador, el mulo Muso, par mi ghe la pol far».
«A fare cosa?».
«A vincere una medaglia per l’Italia. Dopo tanti anni…».
«Dal 1924, per la precisione, un secolo. Un bronzo, l’unica medaglia che abbiamo mai portato a casa dai Giochi: la vinse Uberto de Morpurgo, e proprio qui a Parigi».
«Lo so, lo so… In finale con Borotra. Che matto. Un match che non finiva più, 7-5 al quinto. Di quel torneo mi ricordo un ottavo faticosissimo, con quel belga, Washer. Poi Vinnie in semifinale era davvero troppo forte…Ma si giocava al Colombes, lei non può ricordarselo, è troppo giovane. Il Roland Garros lo hanno costruito quattro anni più tardi, anche se dei campi qui già c’erano. Ma non si erano messi d’accordo sui costi».
«Vedo che piace anche a lei il tennis del passato. Comunque sono d’accordo, Musetti è in forma splendida».
«Ho giocato anch’io, sa? Non me la cavavo male. Certo, ai miei tempi era diverso. Prima di fare il tennista ho dovuto studiare ad Oxford, ma era freddo, pioveva sempre, così mi sono trasferito in Francia, dando un dispiacere a mia mamma. Sono stato anche campione universitario, qui a Parigi ».
«Complimenti. Dall’accento però mi sembra italiano…»
«Triestino, soprattutto. Italiano lo sono diventato. Ma insomma, è una storia lunga. Meglio parlare di tennis. Dicevo che ha un bel gioco, quel Musetti. Poi attacca, va a rete, e ora ha messo a posto anche il servizio».
Io usavo ancora le racchette di legno, e la prima la tiravo forte, anche la volée non era male. Peccato ‘ste gambe di legno…».
«Il fisico da attaccante ce l’ha ancora, mi sembra».
«Ma sa, per arrivare a rete servono piedi reattivi, proprio come quelli di Musetti, e io ero lento. Il rovescio Lorenzo sa tirarlo tagliato, in top, e piatto, come piace a me. Ma io mica riuscivo a colpire così forte».
«Mi diceva che anche lei conosce il Roland Garros…»
«Roland? Mai di persona. Siamo stati aviatori tutti e due. Era bravo, bravissimo, un geniaccio. Un grande pilota, peccato sia morto così giovane».
«Io veramente intendevo lo stadio».
«Ah, mi scusi. Sì, ci ho giocato. Sono anche arrivato in semifinale. Ma tanto tempo fa. Stavolta spero di cuore che Lorenzo faccia meglio di me. Di certo, da capitano di Coppa Davis, l’avrei convocato sempre».
«In semifinale? Capitano di Davis? Mi perdoni, ma in che anno?… ».
Non faccio in tempo a sentire la risposta che intravedo con la coda dell’occhio i colleghi correre verso il corridoio dove sta spuntando Lorenzo, reduce dalle infinite interviste con le tv. Meno male, mi dico, a forza di stare al caldo mi sentivo girare la testa. Ma andarsene senza salutare sarebbe da maleducati.
«Devo scappare, abbia pazienza. Prima non ci siamo presentati: mi chiamo Stefano»
«Molto piacere, qui in Francia mi chiamano Hubert Louis, ma lei è italiano, mi chiami pure Uberto…. Ora però vada, vada, go ahead. Sono curioso anch’io di sentire cosa che dise el Mulo. Anzi, pardon: il Muso».
Mi fa un cenno di saluto, e anch’io abbozzo un gesto con la mano, mentre, un po’ perplesso, mi giro per raggiungere i colleghi. Prima di noi però tocca alla stampa internazionale, che reclama Lorenzo a taccuini e microfoni spianati. Bisogna pazientare un secondo. Così torno sui miei passi per salutare meglio il mio pallido e informatissimo interlocutore.
Ma niente, non c’è più. Svanito nel nulla.