CRESCIUTO TRA LE MONTAGNE DI KOPAONIK E LE BOMBE DI BELGRADO, HA SEMPRE AVUTO CHIARA LA SUA MISSIONE: DIVENTARE IL NUMERO UNO DEL MONDO. E ORA CHE CI È RIUSCITO, VUOLE ESSERE RICORDATO COME THE GOAT, IL PIÙ FORTE DI SEMPRE

Il piccolo Novak non era stupido. Sapeva che c’era ben poco da ridere, lo aveva capito dai volti dei suoi genitori, quando ogni notte per 78 volte uscirono di corsa dall’appartamento di Belgrado per correre in cantina, a ripararsi dalle bombe sganciate dagli aerei della Nato. Ma con l’innocenza dei suoi 12 anni preferiva cogliere il lato positivo: bombardamenti significava scuole chiuse, quindi più tempo per giocare a tennis, più possibilità di uscire da quell’incubo, più chance di diventare, semplicemente, Novak Djokovic, come lo conosciamo noi. Un vincente. Anzi, il vincente per eccellenza in un mondo dove di posto ce n’era poco e di pregiudizi tanti, figurarsi nei confronti di quel ragazzo dell’ex Jugoslavia, tanto esuberante da sbandierare ai quattro venti che sarebbe diventato il numero uno del mondo, quando per avere la scritta Nole sulle scarpe gli toccava ancora armarsi di pennarello. Potevano ucciderlo in partenza, ma lui li ha saltati uno via l’altro come il suo idolo Alberto Tomba divorava i paletti dello slalom, facendosi prima conoscere, quindi accettare, infine amare. Ci ha provato con siparietti e imitazioni dei colleghi, poi ha capito che l’affetto della gente doveva conquistarselo sul campo. Così è entrato senza chiedere permesso nella rivalità più bella dei giorni nostri, ha chiuso fuori gli altri due e ha buttato la chiave, seppellita sotto nuovi schemi, tanto lavoro e una crescita tecnica continua. Ha spostato l’asticella sempre più in alto, fino a diventare il simbolo planetario di uno sport plasmato con la sua racchetta, ai comandi di consistenza e regolarità. Come ogni cambiamento, non mette tutti d’accordo, sarebbe strano il contrario, ma i risultati parlano per lui. Mai nessuno ha chiuso la stagione con tanti punti quanti ne ha messi insieme Djokovic nel 2015, come nessuno nella storia ha una percentuale vittorie-sconfitte più alta di Re Novak da Kopaonik, città nota come stazione sciistica, dove papà Srdjan e mamma Dijana gestivano una pizzeria. Storia racconta che lì accanto hanno costruito un campo da tennis, ed è stato amore a prima vista. Per baby Novak come per Jelena Gencic, la maestra rimasta folgorata da come tirava il rovescio quel ragazzino di 6 anni. L’ha accompagnato per un po’, poi si è accorta che i mezzi erano tanti ma le possibilità si sgretolavano insieme ai palazzoni di Belgrado, notte dopo notte, bomba dopo bomba. Così a 12 anni l’ha spedito in Germania, da Niki Pilic. Sperava di creare un tennista, non poteva sapere che con la sua educazione avrebbe regalato alla Serbia l’ambasciatore perfetto.

Un eroe credibile, dal volto pulito, spendibile come personaggio nelle tv di mezzo mondo. E che soprattutto ha messo d’accordo chiunque a suon di “ajde” e pugni sul petto, contribuendo a ricostruire l’identità e l’orgoglio nazionale di un Paese a pezzi. Parlare di Grand Slam è sempre stata utopia, anche per il miglior Federer. Ma lo svizzero aveva il problema Nadal, mentre Djokovic l’ha annientato e contemporaneamente ha ammazzato il resto della concorrenza. Sembra pronto come mai nessuno prima: quando sta bene vince, sempre, comunque e ovunque. Cemento, terra, erba, indoor, tutto uguale, tutto terreno di conquista del campione gluten free. La sua bacheca conta 11 Slam e tanti desideri realizzati, su tutti Wimbledon e la vetta del ranking ATP. Li sognava da ragazzino, quando adorava ritagliare coppe di cartone e immaginarsi campione nel Tempio, e se li è presi cinque anni fa nel modo più bello, cioè insieme: domenica 3 luglio i Championships, all’indomani il numero uno, che accompagna il suo nome da oltre 200 settimane e chissà quante altre dovremo aggiungerne. Gli stimoli sono tanti, gli obiettivi pure, su tutti quello di raggiungere i 17 Slam che brillano nel salotto di casa Federer. C’è lo spazio, il tempo, e soprattutto la voglia di agguantarlo, per prendersi il sorriso degli ultimi scettici e pure quelle quattro lettere che messe in fila fanno GOAT, Greatest Of All Time, il più forte di sempre. Per il percorso, forse lo è già, mentre per l’investitura ufficiale si deve aspettare, ma è probabile che arrivi anche quella. Perché (quasi) mai nessuno ha dominato quanto lui in questo momento. Va bene, non sarà mai amato quanto il genio di Federer. Ok, forse nemmeno come il combattente Nadal. Ma chi l’ha capito lo stima, gli altri pazienza, non si può piacere a tutti. La popolarità globale non gliela tocca nessuno, come gli oltre 100 milioni di guadagni in soli montepremi, le attività imprenditoriali, la fascia da ambasciatore Unicef, cassetti pieni di onorificenze e riconoscimenti, e pure una fondazione benefica che nella sua Serbia costruisce scuole per i meno fortunati. Perché le sue origini non le ha mai dimenticate. Dice di sentirsi altri cinque anni nelle gambe: il fisico di gomma sembra d’accordo, la mente pure, ricaricata prima dal matrimonio con la bella Jelena e poi dall’arrivo del piccolo Stefan, angelo biondo che ha dato una nuova dimensione alla sua vita, portando un’armonia mai vista prima. Poteva essere una distrazione, una scusa per tirare il fiato. Invece è diventato un motivo per fare ancora meglio. E non era semplice.