Niente da invidiare al valoroso Davide o al prode Achille, piè e braccio veloce. Le prodezze di Novak Djokovic nell’agguantare il suo 24esimo Slam vengono accostate dal ‘nostro’ biblista a eroi biblici e mitologici
“Non ho una ricetta sempre valida per mantenermi a questi livelli. Devi costantemente rinnovare te stesso, giorno dopo giorno, perché ogni altro giocatore lo fa”. Non so se ogni altro tennista effettivamente lo faccia, ma lui di sicuro sì. Sto parlando di Novak Djokovic, molti anni fa rivelatosi al mondo come l’intruso nel binomio Fedal, poi conosciuto come l’uomo atleticamente snodabile, come il giocatore dalla forza mentale sovrumana, e molto altro…
Ora, all’indomani della vittoria del suo ventiquattresimo Slam a New York, su 36 finali complessive, tante quanti i suoi anni; dopo aver vinto per la quarta volta tre Slam in un anno; dopo aver giocato quest’anno le quattro finali con altrettanti tennisti ben più giovani di lui; dopo essere stato a pochi punti (un tie-break, in fondo) dal vincere anche Wimbledon e dunque completare il Grande Slam; dopo tutti gli altri record che sta mettendo in fila, le parole sono difficili da trovare per descrivere Nole. Qualche mese fa, con una punta di sconforto visto il mio amore per il divin Roger, applicavo a lui la famosa frase del sapiente biblico Qohelet: “Quel che è stato sarà e quel che si è fatto si rifarà: non c’è davvero nulla di nuovo sotto il sole!”. Oggi mi affido più prosaicamente al suo allenatore, Goran Ivanisevic, che senza apparente ironia ha affermato: “Vuole arrivare alle Olimpiadi di Los Angeles del 2028”. Le motivazioni del resto non gli mancano, in un processo di costante evoluzione in cui riesce a tenere insieme la passione per il tennis e lo spirito di combattimento che lo induce a non voler abdicare: “Visto che sono a questi livelli, non vedo perché dovrei uscire di scena”.
Il guerriero Nole, sempre più ecumenico (a parole, in campo è un’altra storia!) potrebbe essere accostato a personaggi biblici quale Giosuè, Gedeone, Davide, condottieri valorosi e scaltri di Israele. Ma per una volta vorrei sconfinare in territorio epico, campo metaforico a cui gli esperti in questi giorni fanno ricorso. Djokovic mi appare come il prode Achille, piè e braccio veloce cantato da Omero. Certo, anche lui era vulnerabile nel tallone destro, dove una freccia lo colpì mortalmente. Questo calcagno per il serbo è spesso stato l’amore mancato del pubblico, rispetto a quello riservato a Roger e Rafa. Al punto che due anni fa perse gli Us Open in preda a un collasso emotivo, sempre contro Medvedev, assimilabile al profeta Elia. Celebri le immagini del suo volto singhiozzante affondato nell’asciugamano mentre gli spalti per una volta lo acclamavano. Proprio nell’ora in cui, ironia della sorte, era ormai chiaro che stava perdendo il match più importante della sua carriera.
Oggi non sembra avere punti deboli, se non la serena consapevolezza che prima o poi, per ragioni anagrafiche, verrà l’ora di farsi da parte. Più poi che prima, pare. In ogni caso sono discorsi vuoti, perché la forza d’animo, la lucidità e il talento di cui Djokovic continua a dare prova li rendono sterili. Se “c’è un tempo per ogni cosa”, verrà anche quello di lasciare la scena per lui. Poco importa, la vita ci dirà. In mezzo ci saranno tanti oggi, in cui sarà giusto celebrare, al presente, questo fuoriclasse assoluto.
E se proprio vogliamo ritornare al tesoro dei testi biblici, ricordiamo le parole rivolte da Davide a Dio in uno dei centocinquanta Salmi, dopo essere stato da lui soccorso nella battaglia: “Tu allunghi il passo ai miei piedi, i miei calcagni si muovono sicuri, inseguo i miei nemici e li raggiungo, non torno senza averli annientati. Tu mi cingi di forza per la lotta, davanti a me fai piegare gli aggressori”. Chissà se Nole, orgoglioso della sua tradizione cristiana ortodossa, medita anche i Salmi, mentre si trova nel mezzo della tensione agonistica. Il suo sguardo concentrato lascia immaginare che lo faccia. Per reinventarsi ogni giorno, battaglia dopo battaglia, Salmo dopo Salmo.