Basta specialisti: dalla Spagna all’Argentina, è in atto la rivoluzione delle superfici. Mentre tutti migliorano, solo l’Italia rimane alla finestra. DI LORENZO BALETTI
Cresciuto sulla terra, Juan Monaco vanta due semifinali Masters 1000 sul cemento

Di Lorenzo Baletti – 5 aprile 2012
 
C’erano un tempo i terraioli, gli erbivori, e i giocatori da cemento. C’erano i tennisti che vincevano il Roland Garros, ma poi neanche si presentavano a Wimbledon. Da oltre un decennio, tuttavia, il tennis ha imposto ai giocatori di abbandonare l’idea della mono superficie. Certo, oggi è più facile adattarsi: le superfici sono più simili rispetto a qualche anno fa, con la terra veloce e il cemento lento, e persino l’erba di Londra meno corta e meno veloce. Se si aggiunge l’obbligo di raccogliere punti nel corso di tutta la stagione, ecco che Paesi dalla tradizione tennistica legata ad una sola superficie hanno deciso di ampliare i propri orizzonti scoprendo nuovi campi da gioco. E così i famosi arrotini spagnoli e sudamericani sono diventati competitivi su tutti i fronti. Nati e cresciuti sulla terra, sono stati in grado di adattarsi al cemento e all’erba grazie al duro lavoro e ad un percorso di maturazione dell’intero movimento, oltre all’uniformarsi dei terreni. Con la Spagna locomotiva trainante della rivoluzione, a partire dalla metà degli anni ’90 è nata nella maggior parte dei tennisti la consapevolezza di doversi esprimere al meglio su più superfici: solo così sarebbero potuti entrare nei top 10 o raggiungere il primato mondiale.

Prima si distingueva tra arrotini e giocatori serve and volley, oggi non è più  possibile. In una stagione lunga 11 mesi, con il 70% dei punti Atp che si ottiene sul cemento, è diabolico pensare di gareggiare su una sola superficie. E sulla terra, per giunta. Basti pensare che su quattro tornei del Grande Slam, solo uno si gioca sul rosso; su nove Master 1000, solo tre si disputano sulla terra battuta; su undici Atp 500, appena tre si giocano lontano da cemento o superfici indoor. Insomma, basta vedere il calendario per capire che giocare solo sulla terra rossa equivale a tagliarsi fuori dai piani alti della classifica mondiale. Eppure sembra che qualcuno non abbia ancora aperto gli occhi. Di certo li hanno aperti molto bene in Spagna, e già da tempo. Lo "sdoganatore" fu Carlos Moya nel 1997, con la finale in Australia. A seguirlo Ferrero, finalista a New York nel 2003. E tra i due anche Corretja: la finale del Masters 1998 tra Moya e lo stesso Corretja era già sintomo di un movimento che andava rivoluzionandosi. Con l’apice raggiunto ai giorni nostri: tralasciando Nadal per cui vale un discorso a parte, sono tantissimi gli spagnoli competitivi sul cemento, e in parte sull’erba. Su tutti Ferrer, semifinalista a Melbourne e agli US Open; oppure Verdasco e Almagro. Tutti figli della terra rossa, maturati e migliorati anche lontano dall’amata superficie, e che non a caso sono riusciti ad entrare tra i primi 10 giocatori del mondo.

E se la Spagna ride, anche in Sud America non se la passano male. In Argentina Nalbandian, Del Potro, Monaco, ma anche Chela, sono tutti giocatori che possono dare il massimo su qualunque campo. I primi due baciati anche dal talento, gli altri premiati dal lavoro e dal grande impegno. In fondo è questa la chiave: basta crederci, impegnarsi, lavorare, sudare, e i risultati arrivano. Sono arrivati anche per il duo cileno Gonzalez – Massu, il primo addirittura finalista agli Australian Open nel 2007; o per il brasiliano Kuerten, re del rosso ma vincitore anche in rassegne sul cemento, con Bellucci che ora cerca di emularlo. Solo per citare i migliori, perché dietro c’è tutto un movimento portato avanti dai vari Granollers, Andujar e Ramos, con i colombiani Falla e Giraldo che stanno arrivando. Tutti avanti, o a ridosso, di Andreas Seppi, n. 1 d’Italia e 44 del mondo. Non a caso l’unico tennista azzurro insieme a Fognini (n. 2 d’Italia e 57 Atp) che pianifica la propria stagione su più superfici. Almeno l’altoatesino e il ligure ci provano, e di questo bisogna dar loro merito. Se infatti si pensa a tutti gli altri giocatori azzurri che neanche tentano di migliorare, preferendo il Challenger su terra sotto casa rispetto al Masters 1000 sul cemento, si capisce come l’Italia sia indietro anni luce. Mancanza di spirito di sacrificio e ambizione feroce sono purtroppo caratteristiche della maggior parte dei nostri tennisti. Tecnicamente non hanno nulla da invidiare a (quasi) nessuno, ma allo stesso tempo non trovano l’attitudine mentale al rischio e il coraggio di mettersi in gioco. Ma il passato è passato, ora bisogna pensare al futuro. Si spera che il progetto “Campi Veloci” della FIT possa dare una prima scossa al movimento, e che i nostri giovani atleti prendano esempio oltre le Alpi anziché in casa propria. Noi proviamo a dirglielo, ma i primi a farlo dovrebbero essere tecnici e maestri.